Riguardo al porto d’arma e al libero esercizio della medesima

 

Francesco Natale

Carlo Collodi era un genio. Senza lanciarsi in una pedante e pallosissima ermeneutica del suo “Pinocchio”, mi soffermo su un solo, singolo passo della sua grande opera: il giudice gufo chiamato a render sentenza sul furto degli zecchini d’oro che lo scapestrato burattino ha subito ad opera del Gatto della Volpe.

“A questo burattino sono stati rubati tre zecchini d’oro: sbattetelo in gattabuia e che non se ne parli più”.

Sintesi perfetta e profetica degli strani giorni di merda che viviamo oggi, nel nostro quotidiano.

Scrivo qui, oggi, partendo da una riflessione estemporanea del mio amico Ricky, amante e praticante delle armi da fuoco, il quale mi fece notare una cosa alla quale, pur avendone contezza nel subconscio, non avevo mai effettivamente e concretamente pensato: la straordinaria capacità di equalizzazione della forza che l’arma da fuoco possiede.

Semplificando: se per malaugurata sorte vi trovate in un vicolo semibuio del lodigiano, magari avete fatto tardi a lavoro, siete scesi da un treno alle 21.00 (E già avete superato incolumi la stazione di Lodi in notturna: roba che oggi ha del miracoloso…), dovete raggiungere la macchina parcheggiata a fanculandia, e all’improvviso emergono dallo sfondo del suddetto vicolo 5 energumeni, Italiani o meno non importa, siete semplicemente fottuti. Non avete speranza, o quasi, a meno che pezzi del DNA di Chuck Norris vi scorrano potenti nelle vene.

Se per sbaglio avete pure la sventura di essere una Donna, di qualsiasi età, al peggio non si pongono limiti. Lo stupro è di default. Ed è, forse, il “minimo” che vi può capitare. Il sequestro e lo stupro reiterato per giorni è scenario tutt’altro che improbabile. Il “gran finale” è l’assassinio (vostro): un qualcosa che a quel punto viene comprensibilmente visto come benedetta liberazione.

Di fatto, non avete scampo.

E’ un qualcosa di causalmente connesso al meccanismo della predazione e, soprattutto, alla piena coscienza da parte dell’agente o degli agenti che tale predazione sia sostanzialmente non perseguita, non prevenuta, non stigmatizzata con l’estremo pregiudizio che il caso richiederebbe.

Di fatto una predazione impunibile.

Siete tutti e, soprattutto, TUTTE vittime potenziali: dovete solo sperare in quei momenti critici del vostro vissuto quotidiano che Moloch stia guardando da un’altra parte, che si sia già saziato con un’altra preda, che sia troppo liquefatto da alcol e droga per esigere un ulteriore banchetto.

Del quale, in caso contrario, voi sarete la portata principale.

Ora, e qui la questione si fa tosta, c’è un solo strumento che vi mette in grado di ribilanciare, di equalizzare appunto, il rapporto di forza altrimenti abissalmente sproporzionato: l’arma da fuoco.

Che si tratti di uno, cinque, venti aggressori l’arma vi mette in grado di reagire.

E di reagire in maniera tale da sterilizzare o disincentivare qualsiasi azione o reazione.

Attenzione: io ho volutamente semplificato, e di parecchio, la situazione.

Ma il succo della questione non cambia: abbiamo quotidianamente a che fare con una masnada innumerevole di marginali, abituati all’esercizio della violenza, professionalmente od occasionalmente delinquenti, con poco o nulla da perdere, magari “incendiati” dal super-ego criminale che viene debitamente coltivato dalle “gang”, in base al quale la predazione della vittima occasionale è considerata rito iniziatico, di fronte ai quali siamo, semplicemente, imbelli.

Nel senso etimologico del termine: sprovvisti del pur minimo meccanismo di difesa.

Mentale prima ancora che fisico e materiale.

Così non può andare.

Penso a quella ragazza che, di ritorno dall’Università, è stata ripetutamente violentata da tre “latinos” a Sampierdarena non più tardi di tre mesi fa.

Penso a quel disgraziato capotreno al quale è stato amputato un braccio a colpi di machete sulla linea delle Ferrovie Nord di Milano.

Penso ai due anziani uccisi, lei prima violentata, vicino a Mineo pochi giorni or sono.

Penso a chi è stata rapinata, stuprata e infine sgozzata nel cosiddetto “centro storico” (una fogna a cielo aperto in realtà: umanamente e materialmente) di Genova

Penso a chi, circa 8 anni fa è stata di fatto sequestrata, pur se per poche ore, malmenata fino a slogarle una spalla, fatta oggetto di violenza fisica e psicologica intollerabile nel “privé” sotterraneo (domanda puntigliosa: che se ne fa di un “privé” “particolare” ed interrato un locale? Chiedetevelo pure voi…) di un notissimo “locale” in zona Vittoria sempre a Genova, ad opera dei valenti scherani di un “piccolo big” impegolato in faccende di edilizia, palestre, centri estetici, discoteche.

Penso a quanti sono stati uccisi in maniera assolutamente estemporanea ed imprevedibile con una picconata nel cranio da un extracomunitario insano.

Penso a due prostitute albanesi minorenni sventrate dalla vagina alla gola e mollate come bestiame macellato, come spazzatura, in riva al fiume a Chiavari 6 anni fa.

Penso, in definitiva, alla violenza quotidiana che innumerevoli predatori esercitano sistematicamente tra club, appartamenti, strade, locali pubblici, vicoli bui e boulevard illuminati.

Impuniti ed impunibili, poiché di fatto ignorati. Da noi “gggente per bene” prima ancora che dalla Forza Pubblica.

Da Lavagna a Sarzana, da Roma a Milano, da Borghetto Santo Spirito (centrale di reclutamento della bassa manovalanza per gli “onorati cugini”, Calabresi e non solo) a Loano, da Perugia a Ostia.

Penso a come e quanto avrebbero potuto finire in maniera diversa, forse, anzi, senz’altro, più giusta tali situazioni se le prede fossero state armate.

Non ho certezza assoluta del valore salomonico di una calibro 9, ma, di sicuro, queste vittime avrebbero se non altro avuto una possibilità. Forse una sola.

A volte basta: non ne servono di più.

Ora, io non sono in alcun modo aderente ad una “cultura militarista”. Non fantastico su legioni di ronde paramilitari armate a tutela del cittadino-che-paga-le-tasse. “Credere, obbedire, combattere” lo lascio ai pupazzi di Forza Nuova (i quali, per inciso, vista la loro tetragona dabbenaggine, fanno al netto il gioco del “nemico” che dicono di voler combattere…) Non ho il porto d’armi né penso di fare domanda per averlo: non sono stato educato all’uso delle armi, che pure mi piacciono, e qualche risalente problema di troppo tra alcol e carattere di merda mi spinge ad estrema prudenza nell’includere nella mia sfera soggettiva un’arma da fuoco: la tentazione di diventare un Charles Bronson “ddde noiartri”, di ripulire palingeneticamente il Mondo a cominciare dal “cortile” di casa mia talvolta è forte. Fortissima. Meglio sedarla, fare la guardia alla propria pur giustificata iracondia e stringere i denti, lontano da Jackhammer, SPAS-15, P-90 e altri gioiellini del “bum bum”.

“Laicamente”, diciamo così. mi pongo delle domande.

Quello che so per certo è che la nostra “debellatio”, assai risalente in verità, è una cancrena marcescente: una pastoia mostruosa nella sua sottile, insinuante, luciferina “ragionevolezza” che assolve ad un solo, unico scopo.

Impedire che le prede, le vittime, le bestioline da macello rompano i coglioni.

Impedire che causino problemi, ovvero che mettano in luce col loro comportamento attivo volto all’autotutela le abominevoli, gigantesche falle nel nostro sistema di pubblica sicurezza.

Dobbiamo semplicemente subire. Chinare la testa. Pregare di non essere il prossimo “input” in una statistica. Pregare che un nostro congiunto, familiare, amico non sia l’ennesimo “input” in una statistica.

Una condizione, dal punto di vista psicologico, se non fisico tout court, assai prossima alla schiavitù.

Non ho, purtroppo, una risposta definitiva e strabiliante, efficace e ponderata.

Certamente mi sono rotto il cazzo di sentire sproloqui senza capo né coda, ideologicamente fradici di luoghi comuni, unicamente volti alla preservazione di uno status-quo a mio giudizio intollerabile.

Mi limito a cercare di sfatare qualcuno tra i più perniciosi di tali luoghi comuni.

Innanzitutto: fin dall’Alto Medio Evo (Nota bene: chi considera tale periodo “buio” è pregato di correre in bagno, abbracciare il cesso e partire in direttissima per vaffanculo: questo non è il blog del ladro di ossigeno Saverio Tommasi. Qui si distribuiscono, e gratuitamente per di più, Verità Assolute e Rivelate. Chi la pensa diversamente si accomodi: il pianeta fanculo è da quella parte) la condizione di Uomo Libero praticamente si concretizzava nel libero porto delle armi.

Eri realmente libero poiché avevi il mezzo (e la volontà di usarlo) per difendere te stesso, la tua famiglia, la tua proprietà.

In assenza di questo la “libertà” era una parola vuota: equiparabile per contenuto all’export di “democrazia” obamiano in Nord Africa.

Un NULLA insomma.

Già da questo deduciamo un assunto elementare, lapalissiano, naturale…eppure oggi sparito dal nostro “DNA sociale”: difendere la propria incolumità, quella dei propri congiunti, l’integrità di ciò che è proprio è GIUSTO.

Senza possibili eccezioni.

O lo fai, qualora il caso lo richieda, o sei meno di uno schiavo.

In secondo luogo, l’obiezione che i proibizionisti del calibro 12 avanzano, imperterriti ed imperturbati da decenni è la seguente: “La liberalizzazione delle armi da fuoco comporterebbe in automatico l’accesso incontrollato alle armi da parte delle malavita, dei delinquenti, della MAFIA (parola dal valore ieratico nel nostro disgregato paese: basta sentirla pronunciare con adeguato accento sofferto ed aspirato da qualche Saviano o Travaglio del caso per mettersi sull’attenti, tirare fuori un’agendina rossa e maoisticamente intonare qualche vigliacco ed ipocrita peana funebre dedicato a Peppino Impastato o Giovanni Falcone. Come se cantare in voce bianca ci facesse crescere le loro palle…)”.

Una cazzata micidiale, criminale, vomitevole, insoffribile, scandalosa, ributtante: chi delinque abitualmente o è comunque corrivo al “milieu” HA GIA’ liberissimo accesso a qualunque arma, autoctona o d’importazione.

Chi delinque ha in sua piena disposizione risorse, canali, conoscenze per entrare in possesso di interi arsenali.

Questa ripugnante mistificazione, ispirata e fertilizzata da altrettanto ripugnanti soggetti per i quali la destabilizzazione sociale è fulcro primario della loro “leva politica”, ha generato e genera tutt’ora, inesorabilmente, una sperequazione insanabile nel rapporto di forza tra delinquente e comune cittadino: il primo ha, proprio grazie al proibizionismo, accesso ad ogni mezzo immaginabile per vessare il secondo, il quale o subisce e tace, o, Dio non voglia, se per sbaglio possiede un’arma, per uso sportivo o venatorio che sia, è fatto oggetto di un “monitoring” costante, di una compressione della sua sfera soggettiva manco fosse Osama Bin Laden.

Un paradosso kafkiano: noi non sappiamo quali e quanti delinquenti siano in possesso effettivo di un’arma. Ma sappiamo che tu ce l’hai, poiché l’hai dovuta denunciare. Ergo sei un bersaglio facile: tanto vale sorvegliare te.

Se per sbaglio ti permetti pure di usarla, vedi il caso del benzinaio eroe o del tabaccaio stufo di subire rapine, di fatto vieni percepito alla stregua di un deicida.

Abbiamo pure dovuto digerirci, nel caso del benzinaio, le interviste ai familiari dell’alieno deceduto in seguito alle ferite riportate, i quali in maniera non velata ma manifesta e sfacciata hanno apertamente dichiarato, a telecamere accese, che “avrebbero saldato il conto”.

Cioé, capiamoci: l’avere impedito una rapina e, soprattutto, lesioni gravi ad una sventurata commessa diventa una specie di “reato morale” extra codicem. Ne segue che: NOI abbiamo tutto il diritto di rapinare, fare il comodo nostro e magari stuprare o ledere una Donna, avere libertà di fuga e quindi di goderci il bottino.

Se qualcuno ce lo impedisce la pagherà cara.

Costoro, citati qui come hapax legomenon, ridefiniscono nel quotidiano il concetto stesso di “Giustizia” e di percezione della medesima..

In un paese civile finirebbero appesi ad un pennone e lisciati da 100 frustate.

Nel nostro geoteratoma peninsulare acquisiscono il rango di filosofi del diritto alla stregua di Kelsen o Dworkin: ridefiniscono attraverso il pensiero, la parola, l’azione i fondamenti stessi del giure.

Ci spiegano loro come funziona il nuovo “codex”. E Giustiniano vada pure a fare in culo.

“Racaille” della peggior specie: spazzatura sub-umana doppiamente colpevole. Non solo per quello che fa, che già basterebbe: ma ancor più per la violenza morale, per lo stupro psicologico che ci impone, attraverso l’efficace mix di piagnisteo, instillazione del dubbio (dubbio? Quale o quali, per Dio?!?!?), e tracotante, manifesta violenza espressiva.

Un cancro metastatico che, e in questo meriteremmo davvero di fare la fine di Atlantide , pensiamo veramente di contenere con l’omeopatia boldriniana.

Come se ciò non bastasse, arriviamo all’ennesimo punctum dolens.

Chi scrive, nonostante le apparenze ursine e belluine, ha estremo rispetto per quanti indossano una divisa. Ritiene altresì che i fenomeni, pur presenti, di corruttela e fancazzismo ascritti alle nostre Forze dell’Ordine siano esagerati da una “stampa” infame e da un’opinione pubblica i cui fomentatori davvero meriterebbero di vivere nel mondo che preconizzano con le loro concioni “libertarie” ed “inclusive”: penso si convertirebbero nel volgere di poche Lune.

Ma…già, ma: per bocca di amici Agenti ed Appuntati, lo scoramento e il senso di parziale inutilità è forte. Fortissimo.

Ho perso il conto dei casi riferitimi in via ufficiosa riguardanti arrestati in flagranza per i quali il giudice non ha confermato il fermo trascorse le canoniche 24/48 ore.

Tengo ancora il conto, poiché meno frequenti, i casi di amici che hanno passato guai seri per avere sparato in aria al fine di intimidire il reo.

Non so se ridere o piangere pensando ad una “nostra” volante seminata da una, attenzione, Ypsilon 10 rubata a seguito di un furto con scasso: i guidatori, albanesi nel caso specifico, non hanno esitato ad aprire il fuoco sulla “gazzella”. Chi è stato protagonista dell’evento mi confessò: “Chi me lo fa fare per una merda di stipendio e per dovermi poi passare una fila di guai giudiziari se reagisco al fuoco?”. Non condivisi, ma capii…difficile dargli torto.

Un altro amico, Carabiniere, una sera mi disse, tra un bicchiere e l’altro (Non era in servizio): “La cosa peggiore che ti può capitare è ammazzare o ferire un ladro che ti ritrovi in casa. Te lo dico qui e ora: se mai ti capitasse, Dio non voglia, stendilo. Quindi caccialo in un bidone, giù da un argine, in un fosso. L’importante è che non te lo troviamo noi in casa, morto o, peggio, ferito: passeresti guai a non finire e noi non potremmo farci un cazzo…se non raccogliere la sua denuncia assieme alla tua”. Esagerava? Non so. Non mi pareva davvero.

Siamo, volenti o nolenti, vittime della giustizia di Pinocchio: per un insieme contorto e inviluppato di circostanze concomitanti non abbiamo garanzie e protezioni efficaci.

Il libero porto dell’arma è la soluzione? Non lo so. Non ne ho certezza.

Ma so per certo che, essendo il delinquente medio un vigliacco terminale, forte con i deboli e insignificante di fronte ai forti, insinuare in lui il dubbio che dietro a quella vecchia e apparentemente indifesa pensionata si possa celare un canne mozze o un affilato coltello Kukri disincentiverebbe pesantemente la sua smania predatoria.

Possibilmente e doverosamente in maniera terminale.

Ad Maiora…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ora vi spiego io “mafia capitale”. In quattro(mila) parole.

 

Francesco Natale

 

La Politica è una roba strana. Semplice e strana ad un tempo, meglio. In primo luogo perché non ammette la categoria del “vuoto”: quando un vuoto si crea quello spazio una volta “pieno” non viene disgregato, impachettato su sé stesso e quindi archiviato, ma sarà comunque destinato ad essere riempito da qualcosa. Solitamente, salvo rarissime eccezioni, sarà riempito da qualcosa di esponenzialmente peggiore rispetto al contenuto precedente.

In seconda istanza perché in Politica, a forza di volere ad ogni costo la cosa sbagliata (e sbagliata in maniera terminale, abominevole, aberrante) si finisce prima o poi per ottenerla. Salvo poi non accorgersi che il “voluto, fortissimamente voluto” di un tempo è oggi causa primaria di fenomeni devianti oltre misura di fronte ai quali tendiamo a mostrarci stupitamente offesi, spiritualmente feriti e, soprattutto, Dio maledica questa fottuta parola, “indignati”.

Come se una responsabilità diffusa e parcellizzata in riferimento a fenomeni sul genere “mafia capitale” non fosse, assertivamente od omissivamente, anche e soprattutto nostra. Di tutti noi o quasi (mia no, ovviamente: voi arrangiatevi).

Anticipo qui la sintesi finale e mi accingo quindi a sviluppare notevole sforzo maieutico auspicando così che voialtri, teste dure, capiate qualcosa.

Abbiamo preteso ad ogni costo la decapitazione del sistema partitico in Italia e l’abbiamo ottenuta, esultando come i Gipsy Kings dopo il contratto con Madonna; abbiamo preteso “pulizia” e, cazzo, l’abbiamo davvero ottenuta. Annientata completamente la funzione di filtro/cuscinetto del Partito vecchia maniera abbiamo creato un vuoto. Puntualmente riempito dai vari Buzzi, Carminati, Odevaine e compagnia o da loro consimili.

Come sempre accade quando ci si lega mani e piedi, adoranti e sbavanti, a quanti prospettano, fraudolentemente e pro culo proprio, la perfezione su questa Terra, siamo finiti in un mare di merda sconfinato.

Ce lo meritiamo. Punto.

Fertilizzati dalla retorica da puttana marcia su “corruzione”, “tangenti”, “maxitangenti”, Ferruzzi, Enimont, Cardini, Craxi, “valigette”, “fondi neri”, “Milano da bere”, Pillitteri, Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, “teste omega”, travagli quotidiani, santori settimanali, monetine lanciate all’Hotel Raphael e nodi scorsoi sbandierati in Parlamento, abbiamo davvero ottenuto un bel risultato: ovvero lasciare campo completamente libero a grassatori da strada, a “bravi” di manzoniana memoria, a “chuligani” beceri ma furbi, furbissimi ai quali nessuno più è stato in grado di opporre pur tenue resistenza.

Perché noi altri le cose o le facciamo bene o non le facciamo punto.

Quindi dopo aver smantellato dalle fondamenta l’unico sistema ha SEMPRE funzionato (con le fisiologiche eccezioni del caso: NOI non crediamo alla possibilità del mondo perfetto “qui e ora”), abbiamo pensato bene di ribilanciare l’assetto con l’iperplasia legislativa, con leggi, leggine, regolamenti e “codici etici”, con il commissariamento giudiziario delle istituzioni politiche, destinati ad appagare l’ego dei moralizzatori d’assalto.

“Ora si che tutto funziona”, si sarà detta la masnada di casi clinici, sessualmente disturbati, robespierriani fuori quota, fautori della laicità, imbonitori televisivi, nuovi sinedriti e vecchie baldracche malvissute alle quali il neomoralismo ha ricostruito un imene ideale e virtuale.

Un capolavoro, insomma.

Con la “moralità” imposta per legge abbiamo fatto largo alla peggior delinquenza che la penisola abbia mai subito dai tempi dei Lanzichenecchi.

Ma che c’entra il vecchio sistema partitico, chiederete voi amati due o tre lettori, teste di granito che non siete altro?

Semplice: al bel tempo che fu, in prima istanza, taluni soggetti nemmeno erano ammessi all’anticamera dell’usciere di terza classe aggiunto e supplente di un consigliere provinciale. Figuriamoci se potevano vantare amicizie parlamentari o ministeriali.

Non tanto e non solo per una questione di nebulosa “onestà”, ma per una questione di stile in primo luogo, e di autoconservazione in secondo luogo.

Al di là dei borborigmi sbavanti di qualche complottista “a la page”, esisteva un tempo una netta linea di cesura tra classe politica e “mondo di mezzo”, più correttamente “demimonde”. E la prima nemmeno considerava esercizio sensato il disprezzare il secondo: semplicemente neppure lo considerava. Reietti abbandonati al loro mondo di malaffare, stigmatizzati e odiati dal popolo, confinati nel loro “corral” di bestie men che umane, condannati ad una esistenza infame in perenne latitanza, spesso graziati da una pallottola targata Scelba (o chi per lui, Sant’Uomo e Galantuomo).

Oggi invece, almeno in parte significativa, questi reietti infami ce li ritroviamo ad amministrare punti chiave del parastato, benvoluti ed osannati dal popolino che, grazie a coloro, lavora o scuce qualche ghello all’odiato Stato, invitati a cene di gala, invitati a pontificare in TV sul “ruolo sociale delle cooperative” con lacrimoni di circostanza che un coccodrillo scapperebbe sconfitto a coda levata, corrivi a capiclan Rom dell’Anagnina (che, sarebbe il caso di dirlo una volta per tutte, sono ALTRA cosa rispetto ai Rumeni: con buona pace dei TG nazionali che li considerano razzialmente fungibili…), corrivi a ‘ndrangheta e criminalità organizzata internazionale: un pozzo nero del quale non si riesce ancora a sondare il fondo.

Ribadiamolo ancora qui, che non fa mai male: ogni vuoto creato in politica è destinato, SENZA eccezioni, ad essere riempito.

Il punto caldo è: come mai è stato riempito così male?

Scendiamo fenomenologicamente nel dettaglio.

Della decapitazione del sistema partitico abbiamo già accennato: ma cosa è successo dopo? Ovvero: come sono mutati, e in maniera palingenetica, i parametri di selezione della cosiddetta “classe dirigente”?

Ebbene, in peggio senza dubbio alcuno, sia per quanto riguarda gli “homines novi” di centro-destra che per quanto riguarda i conservatori paleolitici di sinistra.

Un tempo il Partito Politico svolgeva, tra le altre cose, un ruolo sociale mirabile e fondamentale per il progresso del paese. La ramificazione in sezioni sul territorio fu felicissima intuizione, indipendentemente dal colore d’appartenenza: la sezione era luogo di dibattito, di studio, di confronto e, soprattutto, di selezione primaria della classe dirigente (nulla a che vedere con le fallimentari “elezioni” veltroniane: pura fuffa bastante al più a mandare in solluchero qualche direttrice di quotidiano). Non solo: per loro stessa natura esercitavano una funzione di controllo autonomo che nessuna legge o leggina sarà mai in grado di battere per efficacia e severità. Se hai il culo chiacchierato, per dire, col cazzo che ti facciamo consigliere comunale. E in un contesto di fortissimo decentramento, era molto semplice sapere nel dettaglio chi avesse o meno il culo chiacchierato. Ed un Congresso Nazionale, specie per chi ci arrivava forte di 200.000 tessere, era sempre un’ordalia dalla quale era facilissimo uscire con le ossa rotte. La mera ipotesi di ingerenza da parte di pendagli da forca in una macchina così ben congegnata era semplicemente surreale: sarebbero stati presi a calci nel culo dai militanti stessi ben prima di arrivare a mendicare (e ottenere!) benefici cardinalizi da parte di un Consigliere Regionale, come invece oggi è accaduto.

Con il “new deal” post manipulite tutto questo cessa di esistere da un giorno all’altro. Fine. Keine. Kaput.

Ma, per una volta ed una sola voglio dirlo, poi mi sciacquerò la bocca col Listerine, la responsabilità specifica della magistratura al riguardo fu limitata.

Il peggio, e in buona fede, ne sono convinto, ce lo regalarono il post-partito di sinistra e il non-partito di centro-destra.

Liquidiamo in due parole il primo: persa la sua funzione storica nel 1989 e incapace di dare realmente corpo alla “svolta della Bolognina” se non sulla carta l’ex PCI resta una ed una sola cosa. Apparato. Apparato puro. Un apparato sconfinato. Il mantenimento del quale comporta in re ipsa il reperimento di risorse sempre maggiori e, di conseguenza, la necessità di scendere a compromessi certamente non criminali, ma comunque ambigui, luciferini, diafani e impensabili anche solo in epoca Berlinguer.

L’abolizione de facto delle Province nonché il ridimensionamento in negativo di consigli e giunte comunali e regionali ha inoltre diminuito notevolmente la possibilità di accasamento per le seconde, terze e quarte file. Le quali, è comprensibile, il loro “posticino al Sole” pur lo volevano e lo vogliono.

Forza Italia, d’altro canto, nasce fin da subito come il partito più centralista della storia repubblicana. Un non partito para-stalinista, se vogliamo.

Le “sezioni” formalmente esistono ancora, ma sono in realtà dei soviet per il bel mondo che conta. Ci ho militato e lavorato per 15 anni, quindi lo so.

Il Cavaliere non si pone allora né si porrà mai, per tutta la sua non breve vita politica, la questione della “selezione della classe dirigente”. Non gliene frega un cazzo di niente: basta LUI da solo o, al più, la “classe dirigente” ce l’ha già fresca, pronta e formata nelle fucine di Fininvest/Mediaset. Non vuole assolutamente ritrovarsi rompicoglioni che dibattono in sezione, propongono mozioni, interferiscano sulle scelte arcoriane, svolgano REALMENTE ruolo di coordinamento e promozione, facciano campagne di tesseramento (una nota a margine che rende l’idea più di tanti sproloqui: con un contributo tessera di 100.000 Euro si aveva diritto a TRE cene – trecenetre- con il Coordinatore Nazionale, ai tempi Sandro Bondi, e con 500.000 Euro di versamento ad UNA cena -unacena- ad Arcore con il Cavaliere in persona. Domanda: è forse un Partito questo? Rispondetevi da soli cercando di non scadere in una giustificatissima volgarità da caserma…), e, più in generale, svolgano quel ruolo FONDAMENTALE che i “rompicoglioni” di sezione hanno sempre svolto durante la Prima Repubblica: toccare il tempo alla dirigenza e fare da custode ai custodi.

Ma, accidenti, in mezzo a questo nulla incarnato, in mezzo a questo vuoto pneumatico, il problema delle candidature comunque si pone, perché le liste per elezioni comunali, provinciali, regionali, nazionali vanno in qualche modo riempite.

In qualche modo, appunto. Abolita pressoché in toto la consultazione “popolare” a mezzo sezione, con uno di quei lampi di genio a cui il monodinasta di Arcore ci ha abituato, ecco che arrivano…I CASTING!

Si, avete capito bene: i casting. Come se un futuro assessore al bilancio dovesse partecipare all’Isola dei Famosi o a Voice of Italy. L’inesistenza pressoché totale di forzisti barbuti, da sempre orpello facciale detestato a morte dal Cavaliere (e dalla generalità dei “parvenù” meneghini, se è per quello…), la dice lunga al riguardo.

Un non partito quindi ove unici criteri di selezione residuale per i candidati sono: 1) La simpatia personale del Cav, ottenuta a mezzo casting o meno; 2) Il lavorare per una delle aziende del Cav; 3) L’essere “raccomandati” da uno degli amici del Cav; 4) In ultimo, aver militato nel PSI/PRI/PLI: qualcuno che capisse qualcosa e gli sistemasse formalmente il non partito ci voleva. Pochi, in verità, questi ultimi: i meno peggio, comunque.

Un casino epocale che ha contribuito, per svista in buona fede ribadisco, ad aprire le stalle ad ogni bue.

Perché come ben potete capire alla fine questa massa di plurigraziati abituati a brainstorming, mission e “gestione delle risorse umane”, i voti sul territorio dovevano pur andarseli a prendere in qualche modo.

Come fare quando, pur abituati a far tremar maestranze inarcando un sopracciglio, nessuna esperienza si aveva di comizio, di confronto, di dialettica vera, di elementare retorica che non riguardasse il “marketing”?

Semplice: condizionati da una vita alla “obbligazione di risultato” e al compiacimento pedissequo dell’uomo cui dovevano tutto e per il quale il fallimento non è un’opzione hanno accettato di buon grado l’apporto di “collettori di voti” senz’altro non criminali o necessariamente collusi, ma con altrettanta certezza ambigui, come minimo, nello svolgimento del loro ruolo intermediario.

Caso emblematico, tra i tanti, quello riguardante un ex Consigliere Regionale di cui non ricordo il nome inquisito per voto di scambio: avrebbe negoziato 4000 voti con un noto capoclan calabrese. Senza in nulla volerlo assolvere o giustificare, ma dove altro avrebbe potuto prendere voti un quasi perfetto sconosciuto catapultato in campo senza particolari cerimonie e senza alcuna esperienza specifica?

Con questo, per carità, ben lungi dal voler sottendere che i due suddetti partiti abbiano dolosamente perseguito un progetto criminale o siano stati in una qualche misura conniventi con realtà ripugnanti, vessatorie, delinquenziali.

Hanno tuttavia involontariamente, certo, creato l’humus ideale perché un ben specifico tipo di “demimonde” si infiltrasse pressoché indisturbato in taluni centri nodali.

Senza dimenticare due ulteriori fattori umani: quello della smisurata avidità di certuni singoli, per i quali l’appartenenza politica non conta nulla se non come trampolino di lancio verso ghiotte cataste di denaro, e, su un piano più sottile, insinuante e criminalmente intelligente, il fatto che Buzzi&C. abbiano sfruttato come strumento per illeciti guadagni le cooperative sociali, ovvero un “regno” intoccabile per l’Italia buonista e rincoglionita, una specie di “sancta sanctorum” sul quale, per communis opinio eunuchorum, ogni ipotesi d’ombra o malversazione era offesa da lavare nel sangue.

In conclusione, questo è il paradosso di fronte al quale una volta di più ci troviamo: abbiamo accettato, quando non apertamente voluto, una massa di regole, regolette, “commissioni etiche” da fare impallidire il MINCULPOP, censure ed autocensure, abbiamo accettato in nome della “legalità” limitazioni mostruose alla nostra sfera soggettiva, tali da compromettere irreparabilmente il patto sociale (dall’anagrafe tributaria unificata all’Azathoth impazzito di Equitalia), abbiamo subordinato l’esercizio di voto alla “patente di legittimità politica” attribuita dalle redazioni “engagé” di grido per poi ritrovarci un Paese impestato di criminali di bassa lega come mai, mai e poi mai ve ne furono in un passato tutt’altro che lontano.

Siamo o non siamo coglioni terminali?

E ora, tutti in devoto pellegrinaggio ad Hammamet, teste di cazzo: a dire una volta di più “PERDONO! Non siamo stati degni di te…”.

 

Ad maiora

 

 

 

 

 

Lo psicodramma “Impresentabili”: ovvero essere così coglioni da creder che la mafia sia stupida

 

Francesco Natale

 

Da dove cominciare? Potremmo esordire così: non solo siamo un Paese che vive di mitologia spuria, ma siamo pure un gigantesco collettore di acque reflue, un depuratore che funziona alla rovescia riversando nel nulla l’acqua per trattenere solo le deiezioni, destinate poi a ghiottissime abbuffate. Siamo dei gourmet della merda, in poche parole.

In prima istanza un paese che garantisce ad un soggetto come la Bindi la potestà di attribuire la patente di legittimità elettorale passiva a chicchessia, senza filtri o paletti, è giunto ben oltre i famigerati “ultimi giorni di Bisanzio”: è pronto, anzi, per l’Exterminatus di warhammeriana memoria.

In seconda istanza, vedete, io non ho idea alcuna di chi siano effettivamente i capicupola di mafia, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, seguaci avventisti di Baal-Shamaroth.

Ma una cosa la so per certo, certissimo anzi: chiunque essi siano si stanno ammazzando dalle risate in queste ore.

Allo snocciolar d’ogni nome presente sulla lista bindiana, dal Salento alla Sila, passando per i Nebrodi su su fino a Borghetto Santo Spirito e Vallecrosia e giù di nuovo fino a Spaccanapoli e Mazara del Vallo, scoppiano obese risate che manco durante una gara di fescennini o una rappresentazione plautina.

Ridono di noi. Esattamente: ridono di un intero paese popolato da, in mancanza di più adeguato eufemismo, emeriti coglioni.

Perché delle due l’una: o crediamo che la “mafia” nelle sue varie e folkloristiche declinazioni regionali sia effettivamente organizzazione criminale ramificata, potente, perniciosa, insinuante, permeante ogni aspetto del vissuto quotidiano, pericolosamente violenta, regista occulto dei patrii destini oppure cediamo, proni a 90 gradi e grati della diuturna inculata, alla vulgata in base alla quale quel brodo primordiale di cromosomi a casaccio di Totò Riina sia stato davvero un potente e rispettato “capoclan”, che Ciancimino sia ora e sempre il “teste Omega” fondamentale&fondativo, che quel pastore di gatti di Provenzano sia stato al vertice della mitizzata “cupola”.

La differenza tra le due attitudini è di non poco momento: perché risolve in via definitiva una dicotomia autoindotta con la quale, evirati, narcotizzati e vigliacchi come oggi siamo, ci siamo abituati a convivere facendo finta di nulla.

L’assunto di partenza è quantomai semplice: nessuno conosce bene legge, popolo e “zeitgeist” come coloro che delinquono professionalmente e da lungo tempo.

Loro, meglio di qualunque giudice costituzionale o avvocato di grido, conoscono alla perfezione tutte, nessuna esclusa, le smagliature del nostro apparato giudiziario, istituzionale, legislativo.

E sanno come sfruttare dette smagliature con efficacia stupefacente.

Se veramente crediamo, quindi, alla “infiltrazione mafiosa” nelle istituzioni e nei corpi intermedi politici, cosa più che possibile e, in taluni casi, conclamata da evidenza fattuale non discutibile, ebbene, nessuno dei nomi presenti su qualunque “lista” di proscrizione sarà mai un potenziale cavallo di troia (vincente, si intende) sponsorizzato dalla “onorata società”, latore dei “desiderata” di quest’ultima.

Se la “mafia” è davvero così potente, come probabilmente è, sceglierà soggetti di specchiatissima reputazione, completamente immuni alla bulimia etico/morale di soggetti surreali, post-puritani fuori tempo massimo, cattoabortisti magari, il cui bacino elettorale di riferimento è fatto da suore spretate e “preti” che alle Sacre Scritture hanno da tempo sostituito la co-sti-tu-zio-ne (e l’opera omnia di Martini e Mancuso, ovvio).

L’idea stessa che i professionisti dell’antimafia militante, dal “popolo delle agendine rosse” di Ciotti e della sua “Libera” ai più scaltri ed “evoluti” Travaglio e Saviano, considerino la “mafia” così stupida e insipiente da farsi fottere da liste bindiane o, peggio, dalla metafisica della “legalità” (come se il semplice pronunciar tale parola avesse capacità demiurgiche) è talmente infantile, contraddittoria, stupida da risultare ripugnante ed offensiva per un qualunque cranio normodotato di materia grigia.

Ne segue, in automatico, che se davvero bastasse una presidente di commissione parlamentare, per altro non munita di intelligenza flamboyant, per ripulire il paese dalla mefitiche incrostazioni mafiose, il problema non sussisterebbe nemmeno, ma si risolverebbe in re ipsa.

Con ogni evidenza possibile, così non è.

Siamo di fronte, anzi, ad un caso lampante di contiguità oggettiva, per quanto incolpevole e, ahimé Dio ce ne scampi e liberi, perpetrata in buona fede.

Perché almeno nella maggioranza dei casi, nessuno contribuisce, in buona fede sottolineo, quanto l’antimafia militante alla costante, quotidiana persecuzione di falsi bersagli, spesso e volentieri costruiti e sacrificati “ad hoc” dalla “mafia” stessa.

Staccate per un attimo il cervello dall’ammasso, quello stesso ammasso che considera alla stregua di Richelieu un subnormale come Riina (Nota bene: gli hanno pure dedicato un seguitissimo serial televisivo. La popolarizzazione del fenomeno dovrebbe indurre al sospetto anche i più imbecilli tra gli imbecilli), e pensate, per una volta: come credete che reagiscano i veri “pupari” di fronte alle fiaccolate di protesta (sempre post-mortem di qualcuno. Mai in-vita del de cuius…), all’indignazione (parola da bandire) palermitana epifanizzata da manine grassocce che sventolano simulacri di agendine, alla retorica oscena del pentitismo (spesso eterodiretto dalla “mafia” stessa: parole -e atti- di Giovanni Falcone, non di un cazzaro qualunque come il sottoscritto, il quale, Falcone, si permise pure di denunciare “pentiti” pilotati attirandosi l’odio sempiterno di tanti “colleghi” magistrati), al savianismo che in maniera perfetta, per quanto soporifera, mescola detto, non detto, lacrime napulitane, buoni sentimenti e prudentissima attenzione nel passeggiar sulle uova, un funambolo che “chiagne&fotte” insomma, ai concorsi di disegno tematico per bambini il cui “leidmotiv” è “NO alla mafia”?

Semplice: ridono. Come pazzi. Si sbellicano dalle risate alla faccia nostra, pisciando a fontana sui “buoni sentimenti”, sulla famigerata “indignazione” che non serve ad una minchia alla stregua della maledetta, maledettissima “legalità”. Parole vuote, senza capo ne coda, senza alcun contenuto, eppur potentemente narcotiche e in grado di fornire ad un popolino ormai criptorchide oltre ogni possibile misura indulgenza, giustificazione, assoluzione. Basta pronunciarle, con adeguato e sofferto accento calabro-siculo-ligure, magari sospirando affranti e versando qualche lacrima di circostanza per sentirsi “a posto”. Per credere davvero di aver inferto un colpo mortale all’onorata società.

Come se di fronte ad un parastato oggettivamente esistente che utilizza in maniera sistematica la violenza fisica e psicologica per consolidarsi ed espandersi bastasse davvero strepitare in patois davanti ad una telecamera o, peggio, come se bastasse organizzare a Bruxelles (si: in Belgio. Appunto) “convegni sulla legalità” per cambiare qualcosa.

Come sempre accade in questo sventurato paese almeno dal 1992 ad oggi, nessuno è così pervicacemente nemico della Morale quanto i moralizzatori d’assalto.

Ovvero quei soggetti annidati come serpi in curie, redazioni di giornali “a la page”, partiti politici dal nome cacofonico nati e proliferati all’ombra del manipulitismo (per poi nebulizzarsi in una nuvola di merda: Dio ha il senso dell’umorismo), promotori occhiuti di manifestazioni e sit-in, amministratori di ONLUS e ONG, cattedratici da Palasharp, “costituzionalisti” di grido, presentatori televisivi dal pallido incarnato di cantore protestante, i quali ci hanno inculcato nelle molli menti un concetto, un’idea di rarissima perversità, di abominevole barbarie e pur seducente come una puttana caldea: la possibilità di imporre per legge la “morale”. La capacità demiurgica della legge di mutare, in un battito di Gazzetta Ufficiale, lo stato REALE delle cose. L’efficacia indiscutibile del diagramma cartesiano/giudiziario nell’individuazione del “bravo politico”, del “bravo giornalista”, dell’ “onesto amministratore”, e via così di puttanata in puttanata.

L’evidenza fattuale ci narra un’altra storia: la corruttela è sistematicamente aumentata (parola di ISTAT: e chi siamo noi per contraddire?) dopo il commissariamento del Parlamento da parte della magistratura nei primi anni ’90. La auspicata palingenesi dell’apparato politico non solo non è mai avvenuta, ma anzi si è prodotto il risultato opposto.

La bulimia moralista divenuto unico “ubi consistam” di una certa classe politica che non vorremmo neppure come guardiana di un garage in centrocittà ha prodotto una pletora non misurabile di “codici etici”, “regolamenti”, “conventiones ad excludendum”, “carte dei valori” (altra parola da bandire con estremo pregiudizio) il cui unico risultato è stato, di fatto, garantire un formidabile grimaldello a quanti davvero delinquono professionalmente e, in quanto tali, saranno sempre non uno ma dieci passi avanti rispetto a qualunque moralista d’accatto, soprattutto se quest’ultimo ha pure la zavorra sisifea della “buona fede”. Orpello decisamente inopportuno quando si vuole fare il culo alla criminalità organizzata.

Ma tant’è ormai il danno è fatto, e il punto di non ritorno superato da lungo tempo: preferiamo non pensare e credere ciecamente a quanti della “legalità” e della “indignazione” ad intermittenza hanno fatto proficua professione.

Vale oggi più che mai il brocardo “Summum ius, summa iniuria” o, più prosaicamente, “Fatta la legge, gabbato lo santo”: perché mai come oggi abbiamo creato, grati e belanti come pecore, il perfetto apparato “regolamentare” per riempire a piene mani le istituzioni politiche ed amministrative di veri mafiosi, di veri delinquenti, di abili e capaci mestatori. I quali, una volta di più, ridono. Fino allo spasmo.

Perché se davvero i cosiddetti “impresentabili” sono 16 e solo 16, la conclusione assiomatica che dobbiamo trarne è una ed una sola possibile: la “mafia” non esiste. Neppure è mai esistita. Con buona pace di Falcone e Borsellino, alle cui farsesche “commemorazioni” partecipano puntualmente e in prima fila i mandanti morali del loro martirio, versando ovviamente lacrime di Giuda profumatamente pagate a cottimo.

Da noi, emeriti coglioni.

 

Ad maiora

Annegati dalle lacrime insulse del piagnisteo permanente, strumentale e militante

 

Francesco Natale

Mettiamo subito un paio di cosette in chiaro: il nostro “prossimo”, specie se “migrante”, spesso e volentieri fa schifo. E’ insopportabile, abissalmente diverso, incompatibile, laido, lurido, rumoroso, molesto, irriformabile, ineducabile, inadeguabile al nostro modello sociale ed al nostro stile di vita. Pur tenendo conto di numerose e significative eccezioni, è spesso e volentieri incline, per cultura di appartenenza, per contingenze legate alle esperienze personali, per il cazzo che volete, a delinquere in solitaria o concorsualmente. Per il “demi-monde” in cui solitamente è già abituato a vivere in patria e che puntualmente si ricrea, come un microclima, nella “sua” terra d’adozione, magari debitamente coadiuvato da valenti “volontari” di ONG/ONLUS, che orbitano attorno ai CPT come faine attorno ai pollai, pronti a fornirgli notevoli rudimenti giuridici, egli sviluppa una conoscenza specifica a proprio vantaggio delle smagliature pazzesche del nostro sistema giudiziario/repressivo ben superiore a quella dello studente medio di giurisprudenza. Diventa, insomma, cosciente appieno della propria sostanziale impunibilità o, addirittura, improcedibilità.

Rappresenta, oggettivamente, un pericolo per la pubblica e privata sicurezza, una turbativa ingiustificata per i contesti urbani ove, come un alveare metastatico, crea le proprie, specifiche, “contro-colonie”, assolutamente non inclini autonomamente a qualsivoglia forma di integrazione, ma, anzi, portate a imporre con la violenza e la tracotanza del caso il proprio modus vivendi.

Dico tutto questo per sottolineare che se noi dovessimo “amare” questo nostro “prossimo” sulla base di quell’asciugone Regina che chiamiamo costituzione, sulla base delle aberrazioni che escono dalla bocca di Laura Boldrini, sulla base della retorica del piagnisteo permanente&militante (La7 del mattino è inarrivabile al riguardo…), sulla base dell’ancor peggior retorica bianchiana/ravasiana/martiniana dell’ “Ultimo”, del “Dimenticato”, del “Diverso”, dell’ “Altro”, di “Stocazzo”, l’istinto primario che animerebbe tutti quelli che ancora conservano un briciolo di nerbo e buon senso consisterebbe nel voler metter mano alla valigetta coi codici di lancio e vetrificare immediatamente negrolandia.

Se tratteniamo la nostra ineluttabile cattiveria, il nostro indubitabile egoismo, la nostra imperfettibile fallacia morale ed umana non è certamente per via dell’articolo 10 della cosiddetta costituzione, non è, meno che meno, per le deiezioni cacofoniche della Presidentessa della Camera, non è, figuriamoci, per le sbavature inconsulte di qualche “priore” o “cardinalicchio”, specie se vaticanoterzisti in servizio permanente.

Ma è solo per Lui: per “quello lì” che è morto in Croce e col Suo Sacrificio ci ha mostrato la Via. Perché solo in virtù dell’amore smisurato che Cristo ha dimostrato per la più imperfetta delle sue creature noi possiamo sperare di superare i limiti che la nostra cattiveria, il nostro perbenismo borghese, il nostro essere avidi e gelosi del nostro quieto vivere ci hanno imposto.

Ed è solo grazie a quell’Amore incondizionato che possiamo, forse, vergognarci della nostra meschinità e imparare a superare (NON ad eliminare: superare) le differenze che oggettivamente ci separano dal Prossimo sul piano culturale e sociale ed in lui vedere solo l’Uomo, il Fratello che ha bisogno. E’ solo per questo tramite che possiamo imparare a gestire le differenze che esistono, comunque, e che solo chi ha segatura nelle viscere e letame nel cranio può pensare e pretendere che siano abolite per legge.

NON si diventa “caritatevoli” per legge così come per legge non si diventa “onesti”.

Ciò premesso, attenzione: Cristiani (e magari pessimi Cristiani) non vuol dire “altraguancisti” senza se e senza ma. Ovvero neppure ai Cristiani piace essere presi permanentemente per il culo, essere narcotizzati dalla bolsa e insopportabile retorica “istituzionale”, e, soprattutto, accettare come normale e naturale la nefanda sindrome dell’autocolpevolizzazione, da qualche anno divenuto sport nazionale di pluridivorziati, malmaritate, anorgasmiche in genere, lesbiche d’assalto ed ex prodiani di sessualità incerta.

Qualche considerazione sparsa al riguardo.

Punto primo, pisciate in faccia senza remore a quanti invocano il Diritto Internazionale come baluardo contro i “respingimenti”: la cogenza del Diritto Internazionale è quantomai nebulosa e rarefatta in assenza di accordi e convenzioni bilaterali. Se è vero, inoltre, che il DI marittimo prevede l’obbligo di soccorso in mare aperto, è altresì vero che uno dei principi cardine, forse il primo in assoluto del DI è il “Diritto a non essere invasi”. E questo NON implica che possiamo sparare ad alzo zero sui cosiddetti “barconi”, ovviamente. Ma implica in re ipsa che possiamo in relativa tranquillità violare le acque territoriali libiche per far dei loro porti falò da sagra paesana, senza alcun “accordo” preliminare, come vorrebbe, guarda caso e nuovamente, la menade Boldrini (Ovvio: a colei basta sempre ottenere l’impastoiamento delle procedure e l’impaludamento degli ordini operativi. Sul perché mi riserberò di scrivere in futuro), poiché l’assenza di un governo effettivo in Libia è problema domestico che non può pregiudicare il NOSTRO status.

Punto secondo: ogni volta che con niagara di lacrimoni, occhioni lucidi da cerbiatta in estro, voce semirotta e mucillagginosa le varie Myrte, Tiziane, Boldrine (si, ancora lei), Vendole, Bianche, Santore, Fazie e Gramelline biascicano di “fino a 6000 Dollari, qualcuno pure 8000, per pagarsi il viaggio della speranza”, ricordatevi che siete fatti oggetto di una presa per il culo gargantuesca, da lavare nel sangue tanto è oltraggiosa, falsa, intollerabile, meschina, puttanesca, inaudita, vergognosa, inqualificabile, lurida, abominevole, infame.

Ragionate con la vostra testa, per Dio (o, se volete, venite a parlare con Said, mio amico mauritano di Nouakchott): guardate qual è il reddito procapite di Sierra Leone, Nigeria, Congo, Centre-Afrique, Mauritania, Algeria, Senegal o altre zone safari di vostro gusto. Indi usate il semplice buon senso (se no Said vi spiegherà nel dettaglio, teste dure!): chi riuscisse a disporre di cifre simili (dai 1500 dollari in su), e quasi nessuno può in quei contesti, STAREBBE allegramente a casa propria, poiché sarebbe, di fatto, quasi benestante. Con cifre assai inferiori rispetto a quelle pubblicizzate criminalmente da tutti i TG nazionali a quelle latitudini si compra casa. Si compra un piccolo o medio esercizio commerciale. Si garantisce per ANNI il vitto per i propri familiari. Il punto è che NESSUNO dispone di tali cifre: se così fosse il problema dei “migranti” sarebbe già autonomamente risolto. Eppure qualcuno “paga”, in effetti, per far transitare questi poveri disperati da una sponda all’altra.

Il sistema standard è il seguente: chi sceglie di imbarcarsi viaggia solitamente gratis. Pagherà il debito contratto, magari vita natural durante, garantendo la propria “manodopera” alle associazioni criminali “omorazziali” o “eterorazziali” presenti nello stato d’arrivo. Se si tratta di “ricongiungimento familiare”, moglie e figli, già presenti in Italia, del “migrante” vengono usati come clausola rafforzativa del “contratto” di associazione.

Vi sono poi “intermediari”, che svolgono solo il servizio di transito e “rivendita” non avendo partecipazione diretta in associazioni criminali autoctone: questi sono pagati “a pezzo”.

Resta in tutto questo assai ambiguo o, comunque, assolutamente inadeguato il ruolo dei CPT (o come cazzo si chiamano oggi), dai quali è facilissimo fuggire, nei quali non si sa bene cosa succeda.

Con questo non dobbiamo neppure immaginare che i disperati del mare finiscano tutti a fare i “cavalli”, ovvero i piccoli spacciatori: ripensate a quanto accadde in Calabria qualche anno fa, ove il “caporalato” gestito dalla ‘ndrangheta si avvaleva sistematicamente di manodopera “afro” non stipendiata per la raccolta dei generi ortofrutticoli, mantenendola difatto in condizione di schiavitù.

Sempre Said, il mio amico mauritano, potrebbe raccontarvi di quando il suo “stipendio” per aver lavorato come cameriere, lavapiatti, factotum 4 mesi in una notissima pizzeria del Tigullio fu…il rinnovo del permesso di soggiorno. Esattamente: non una mezza lira, non una stamberga dove dormire dopo 14 ore di lavoro.

Questo, tanto per capirci, per dare una svegliatina a quelli che “gli immigrati sono una risorsa!”. No: allo stato attuale delle cose sono, bontà loro, tutto il contrario di una “risorsa”, comportando con la loro semplice presenza coniugata all’esser grandissimi figli di puttana di certuni esercenti/imprenditori un deprezzamento spaventoso del costo del lavoro. Da noi in Liguria, specialmente nella provincia di Genova, il problema ha raggiunto proporzioni pandemiche: la risposta standard che il “datore” fornisce a chi lamenta offerte stipendiali ridicole è sempre la stessa: se non ti va così fai spazio, che ne ho quaranta dietro di te che vengono via anche per meno.

Ah! La vecchia signorilità borghese della Superba!

In ultimo, aprite bianciardianamente il fuoco su quella manica di relitti umani, di “racaille”, di spazzatura genetica che cerca di inocularvi la sindrome dell’autocolpevolizzazione: “Il Sud del Mondo è colpa TUA che fai la doccia tre volte al dì RUBANDO acqua a Madre Gaia, che usi cosmetici testati su oloturie e nudibranchi, che allevi bovini pericolosi emettitori di gas serra -giuro: ci sono pure buchi di culo parlanti che ritengono le vacche inquinanti!-, che sei ricco perché hai rubato a chi non ha, che non sei consapevole, liberato, solidale, equo, che pensi solo a pizza e lasagne e non te ne frega nulla della macinatura del sorgo in Etiopia e del miglio sulle Ande (No: a me personalmente non me ne fotte un cazzo: si vede che sono una brutta, bruttissima persona)”. Questi sono i peggiori in assoluto: perché pur figli del benessere estremo -mai avrebbero potuto invilupparsi in contesti da minatore boliviano, per capirci…-, lo stigmatizzano con quella degnazione, quella supponenza, quella albagia che solo gli ultraricchi possono davvero permettersi. Due cartoni per la faccia e un calcio nel culo ben dato sono, solitamente, antidoto sufficiente. Se vi sentite inclini alla giustizia poetica…introducete pure un estintore come argomento conclusivo nella diatriba. Per difendervi si intende…

Ad maiora