Ora vi spiego io “mafia capitale”. In quattro(mila) parole.

 

Francesco Natale

 

La Politica è una roba strana. Semplice e strana ad un tempo, meglio. In primo luogo perché non ammette la categoria del “vuoto”: quando un vuoto si crea quello spazio una volta “pieno” non viene disgregato, impachettato su sé stesso e quindi archiviato, ma sarà comunque destinato ad essere riempito da qualcosa. Solitamente, salvo rarissime eccezioni, sarà riempito da qualcosa di esponenzialmente peggiore rispetto al contenuto precedente.

In seconda istanza perché in Politica, a forza di volere ad ogni costo la cosa sbagliata (e sbagliata in maniera terminale, abominevole, aberrante) si finisce prima o poi per ottenerla. Salvo poi non accorgersi che il “voluto, fortissimamente voluto” di un tempo è oggi causa primaria di fenomeni devianti oltre misura di fronte ai quali tendiamo a mostrarci stupitamente offesi, spiritualmente feriti e, soprattutto, Dio maledica questa fottuta parola, “indignati”.

Come se una responsabilità diffusa e parcellizzata in riferimento a fenomeni sul genere “mafia capitale” non fosse, assertivamente od omissivamente, anche e soprattutto nostra. Di tutti noi o quasi (mia no, ovviamente: voi arrangiatevi).

Anticipo qui la sintesi finale e mi accingo quindi a sviluppare notevole sforzo maieutico auspicando così che voialtri, teste dure, capiate qualcosa.

Abbiamo preteso ad ogni costo la decapitazione del sistema partitico in Italia e l’abbiamo ottenuta, esultando come i Gipsy Kings dopo il contratto con Madonna; abbiamo preteso “pulizia” e, cazzo, l’abbiamo davvero ottenuta. Annientata completamente la funzione di filtro/cuscinetto del Partito vecchia maniera abbiamo creato un vuoto. Puntualmente riempito dai vari Buzzi, Carminati, Odevaine e compagnia o da loro consimili.

Come sempre accade quando ci si lega mani e piedi, adoranti e sbavanti, a quanti prospettano, fraudolentemente e pro culo proprio, la perfezione su questa Terra, siamo finiti in un mare di merda sconfinato.

Ce lo meritiamo. Punto.

Fertilizzati dalla retorica da puttana marcia su “corruzione”, “tangenti”, “maxitangenti”, Ferruzzi, Enimont, Cardini, Craxi, “valigette”, “fondi neri”, “Milano da bere”, Pillitteri, Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, “teste omega”, travagli quotidiani, santori settimanali, monetine lanciate all’Hotel Raphael e nodi scorsoi sbandierati in Parlamento, abbiamo davvero ottenuto un bel risultato: ovvero lasciare campo completamente libero a grassatori da strada, a “bravi” di manzoniana memoria, a “chuligani” beceri ma furbi, furbissimi ai quali nessuno più è stato in grado di opporre pur tenue resistenza.

Perché noi altri le cose o le facciamo bene o non le facciamo punto.

Quindi dopo aver smantellato dalle fondamenta l’unico sistema ha SEMPRE funzionato (con le fisiologiche eccezioni del caso: NOI non crediamo alla possibilità del mondo perfetto “qui e ora”), abbiamo pensato bene di ribilanciare l’assetto con l’iperplasia legislativa, con leggi, leggine, regolamenti e “codici etici”, con il commissariamento giudiziario delle istituzioni politiche, destinati ad appagare l’ego dei moralizzatori d’assalto.

“Ora si che tutto funziona”, si sarà detta la masnada di casi clinici, sessualmente disturbati, robespierriani fuori quota, fautori della laicità, imbonitori televisivi, nuovi sinedriti e vecchie baldracche malvissute alle quali il neomoralismo ha ricostruito un imene ideale e virtuale.

Un capolavoro, insomma.

Con la “moralità” imposta per legge abbiamo fatto largo alla peggior delinquenza che la penisola abbia mai subito dai tempi dei Lanzichenecchi.

Ma che c’entra il vecchio sistema partitico, chiederete voi amati due o tre lettori, teste di granito che non siete altro?

Semplice: al bel tempo che fu, in prima istanza, taluni soggetti nemmeno erano ammessi all’anticamera dell’usciere di terza classe aggiunto e supplente di un consigliere provinciale. Figuriamoci se potevano vantare amicizie parlamentari o ministeriali.

Non tanto e non solo per una questione di nebulosa “onestà”, ma per una questione di stile in primo luogo, e di autoconservazione in secondo luogo.

Al di là dei borborigmi sbavanti di qualche complottista “a la page”, esisteva un tempo una netta linea di cesura tra classe politica e “mondo di mezzo”, più correttamente “demimonde”. E la prima nemmeno considerava esercizio sensato il disprezzare il secondo: semplicemente neppure lo considerava. Reietti abbandonati al loro mondo di malaffare, stigmatizzati e odiati dal popolo, confinati nel loro “corral” di bestie men che umane, condannati ad una esistenza infame in perenne latitanza, spesso graziati da una pallottola targata Scelba (o chi per lui, Sant’Uomo e Galantuomo).

Oggi invece, almeno in parte significativa, questi reietti infami ce li ritroviamo ad amministrare punti chiave del parastato, benvoluti ed osannati dal popolino che, grazie a coloro, lavora o scuce qualche ghello all’odiato Stato, invitati a cene di gala, invitati a pontificare in TV sul “ruolo sociale delle cooperative” con lacrimoni di circostanza che un coccodrillo scapperebbe sconfitto a coda levata, corrivi a capiclan Rom dell’Anagnina (che, sarebbe il caso di dirlo una volta per tutte, sono ALTRA cosa rispetto ai Rumeni: con buona pace dei TG nazionali che li considerano razzialmente fungibili…), corrivi a ‘ndrangheta e criminalità organizzata internazionale: un pozzo nero del quale non si riesce ancora a sondare il fondo.

Ribadiamolo ancora qui, che non fa mai male: ogni vuoto creato in politica è destinato, SENZA eccezioni, ad essere riempito.

Il punto caldo è: come mai è stato riempito così male?

Scendiamo fenomenologicamente nel dettaglio.

Della decapitazione del sistema partitico abbiamo già accennato: ma cosa è successo dopo? Ovvero: come sono mutati, e in maniera palingenetica, i parametri di selezione della cosiddetta “classe dirigente”?

Ebbene, in peggio senza dubbio alcuno, sia per quanto riguarda gli “homines novi” di centro-destra che per quanto riguarda i conservatori paleolitici di sinistra.

Un tempo il Partito Politico svolgeva, tra le altre cose, un ruolo sociale mirabile e fondamentale per il progresso del paese. La ramificazione in sezioni sul territorio fu felicissima intuizione, indipendentemente dal colore d’appartenenza: la sezione era luogo di dibattito, di studio, di confronto e, soprattutto, di selezione primaria della classe dirigente (nulla a che vedere con le fallimentari “elezioni” veltroniane: pura fuffa bastante al più a mandare in solluchero qualche direttrice di quotidiano). Non solo: per loro stessa natura esercitavano una funzione di controllo autonomo che nessuna legge o leggina sarà mai in grado di battere per efficacia e severità. Se hai il culo chiacchierato, per dire, col cazzo che ti facciamo consigliere comunale. E in un contesto di fortissimo decentramento, era molto semplice sapere nel dettaglio chi avesse o meno il culo chiacchierato. Ed un Congresso Nazionale, specie per chi ci arrivava forte di 200.000 tessere, era sempre un’ordalia dalla quale era facilissimo uscire con le ossa rotte. La mera ipotesi di ingerenza da parte di pendagli da forca in una macchina così ben congegnata era semplicemente surreale: sarebbero stati presi a calci nel culo dai militanti stessi ben prima di arrivare a mendicare (e ottenere!) benefici cardinalizi da parte di un Consigliere Regionale, come invece oggi è accaduto.

Con il “new deal” post manipulite tutto questo cessa di esistere da un giorno all’altro. Fine. Keine. Kaput.

Ma, per una volta ed una sola voglio dirlo, poi mi sciacquerò la bocca col Listerine, la responsabilità specifica della magistratura al riguardo fu limitata.

Il peggio, e in buona fede, ne sono convinto, ce lo regalarono il post-partito di sinistra e il non-partito di centro-destra.

Liquidiamo in due parole il primo: persa la sua funzione storica nel 1989 e incapace di dare realmente corpo alla “svolta della Bolognina” se non sulla carta l’ex PCI resta una ed una sola cosa. Apparato. Apparato puro. Un apparato sconfinato. Il mantenimento del quale comporta in re ipsa il reperimento di risorse sempre maggiori e, di conseguenza, la necessità di scendere a compromessi certamente non criminali, ma comunque ambigui, luciferini, diafani e impensabili anche solo in epoca Berlinguer.

L’abolizione de facto delle Province nonché il ridimensionamento in negativo di consigli e giunte comunali e regionali ha inoltre diminuito notevolmente la possibilità di accasamento per le seconde, terze e quarte file. Le quali, è comprensibile, il loro “posticino al Sole” pur lo volevano e lo vogliono.

Forza Italia, d’altro canto, nasce fin da subito come il partito più centralista della storia repubblicana. Un non partito para-stalinista, se vogliamo.

Le “sezioni” formalmente esistono ancora, ma sono in realtà dei soviet per il bel mondo che conta. Ci ho militato e lavorato per 15 anni, quindi lo so.

Il Cavaliere non si pone allora né si porrà mai, per tutta la sua non breve vita politica, la questione della “selezione della classe dirigente”. Non gliene frega un cazzo di niente: basta LUI da solo o, al più, la “classe dirigente” ce l’ha già fresca, pronta e formata nelle fucine di Fininvest/Mediaset. Non vuole assolutamente ritrovarsi rompicoglioni che dibattono in sezione, propongono mozioni, interferiscano sulle scelte arcoriane, svolgano REALMENTE ruolo di coordinamento e promozione, facciano campagne di tesseramento (una nota a margine che rende l’idea più di tanti sproloqui: con un contributo tessera di 100.000 Euro si aveva diritto a TRE cene – trecenetre- con il Coordinatore Nazionale, ai tempi Sandro Bondi, e con 500.000 Euro di versamento ad UNA cena -unacena- ad Arcore con il Cavaliere in persona. Domanda: è forse un Partito questo? Rispondetevi da soli cercando di non scadere in una giustificatissima volgarità da caserma…), e, più in generale, svolgano quel ruolo FONDAMENTALE che i “rompicoglioni” di sezione hanno sempre svolto durante la Prima Repubblica: toccare il tempo alla dirigenza e fare da custode ai custodi.

Ma, accidenti, in mezzo a questo nulla incarnato, in mezzo a questo vuoto pneumatico, il problema delle candidature comunque si pone, perché le liste per elezioni comunali, provinciali, regionali, nazionali vanno in qualche modo riempite.

In qualche modo, appunto. Abolita pressoché in toto la consultazione “popolare” a mezzo sezione, con uno di quei lampi di genio a cui il monodinasta di Arcore ci ha abituato, ecco che arrivano…I CASTING!

Si, avete capito bene: i casting. Come se un futuro assessore al bilancio dovesse partecipare all’Isola dei Famosi o a Voice of Italy. L’inesistenza pressoché totale di forzisti barbuti, da sempre orpello facciale detestato a morte dal Cavaliere (e dalla generalità dei “parvenù” meneghini, se è per quello…), la dice lunga al riguardo.

Un non partito quindi ove unici criteri di selezione residuale per i candidati sono: 1) La simpatia personale del Cav, ottenuta a mezzo casting o meno; 2) Il lavorare per una delle aziende del Cav; 3) L’essere “raccomandati” da uno degli amici del Cav; 4) In ultimo, aver militato nel PSI/PRI/PLI: qualcuno che capisse qualcosa e gli sistemasse formalmente il non partito ci voleva. Pochi, in verità, questi ultimi: i meno peggio, comunque.

Un casino epocale che ha contribuito, per svista in buona fede ribadisco, ad aprire le stalle ad ogni bue.

Perché come ben potete capire alla fine questa massa di plurigraziati abituati a brainstorming, mission e “gestione delle risorse umane”, i voti sul territorio dovevano pur andarseli a prendere in qualche modo.

Come fare quando, pur abituati a far tremar maestranze inarcando un sopracciglio, nessuna esperienza si aveva di comizio, di confronto, di dialettica vera, di elementare retorica che non riguardasse il “marketing”?

Semplice: condizionati da una vita alla “obbligazione di risultato” e al compiacimento pedissequo dell’uomo cui dovevano tutto e per il quale il fallimento non è un’opzione hanno accettato di buon grado l’apporto di “collettori di voti” senz’altro non criminali o necessariamente collusi, ma con altrettanta certezza ambigui, come minimo, nello svolgimento del loro ruolo intermediario.

Caso emblematico, tra i tanti, quello riguardante un ex Consigliere Regionale di cui non ricordo il nome inquisito per voto di scambio: avrebbe negoziato 4000 voti con un noto capoclan calabrese. Senza in nulla volerlo assolvere o giustificare, ma dove altro avrebbe potuto prendere voti un quasi perfetto sconosciuto catapultato in campo senza particolari cerimonie e senza alcuna esperienza specifica?

Con questo, per carità, ben lungi dal voler sottendere che i due suddetti partiti abbiano dolosamente perseguito un progetto criminale o siano stati in una qualche misura conniventi con realtà ripugnanti, vessatorie, delinquenziali.

Hanno tuttavia involontariamente, certo, creato l’humus ideale perché un ben specifico tipo di “demimonde” si infiltrasse pressoché indisturbato in taluni centri nodali.

Senza dimenticare due ulteriori fattori umani: quello della smisurata avidità di certuni singoli, per i quali l’appartenenza politica non conta nulla se non come trampolino di lancio verso ghiotte cataste di denaro, e, su un piano più sottile, insinuante e criminalmente intelligente, il fatto che Buzzi&C. abbiano sfruttato come strumento per illeciti guadagni le cooperative sociali, ovvero un “regno” intoccabile per l’Italia buonista e rincoglionita, una specie di “sancta sanctorum” sul quale, per communis opinio eunuchorum, ogni ipotesi d’ombra o malversazione era offesa da lavare nel sangue.

In conclusione, questo è il paradosso di fronte al quale una volta di più ci troviamo: abbiamo accettato, quando non apertamente voluto, una massa di regole, regolette, “commissioni etiche” da fare impallidire il MINCULPOP, censure ed autocensure, abbiamo accettato in nome della “legalità” limitazioni mostruose alla nostra sfera soggettiva, tali da compromettere irreparabilmente il patto sociale (dall’anagrafe tributaria unificata all’Azathoth impazzito di Equitalia), abbiamo subordinato l’esercizio di voto alla “patente di legittimità politica” attribuita dalle redazioni “engagé” di grido per poi ritrovarci un Paese impestato di criminali di bassa lega come mai, mai e poi mai ve ne furono in un passato tutt’altro che lontano.

Siamo o non siamo coglioni terminali?

E ora, tutti in devoto pellegrinaggio ad Hammamet, teste di cazzo: a dire una volta di più “PERDONO! Non siamo stati degni di te…”.

 

Ad maiora

 

 

 

 

 

NUOVI FETICCI METAFISICI: LA “RICERCA”

Francesco Natale

Ogni anno svariate migliaia di neodiplomati si cimentano nel famigerato test di ingresso per le facoltà di medicina e veterinaria. Leggere ed analizzare i risultati di tali test è procedura che genera una sorta di perversa fascinazione, come quando si resta estaticamente colpiti (per qualche istante, almeno) di fronte ad un tamponamento a catena particolarmente ben riuscito o a un disastro ferroviario di notevole magnitudine.

Ogni anno migliaia di neodiplomati, puntuali come un attacco di febbre quartana, protestano. Protestano perché dal loro punto di vista quelle 40 domande di cultura generale proprio non dovrebbero trovar albergo in un test di ammissione a medicina: loro sono lì per dimostrare quale straordinaria competenza abbiano acquisito in chimica, fisica, matematica durante le scuole superiori. Mica hanno tempo da perdere, lor signorini, con Cicerone, Platone, Lutero e Theodore Roosevelt.

Debitamente pompati e anabolizzati dalla prosopopea di familiari convinti di aver allevato cloni di Enrico Fermi, questi saltafossi occupano aule e piazze, danno la caccia a microfoni e telecamere, prospettano già a 18 anni il loro futuro da “ricercatori”, denunciano l’abuso inaudito del non aver visto riconosciuto, vezzeggiato ed incensato il loro indiscutibile genio da commissioni d’esame evidentemente non preparate, loro, a capire che è ora di finirla col nozionismo: la fantasia è tornata al potere!

Che la fantasia sia tornata prepotentemente alla ribalta non è un mistero: George Orwell avrebbe inventato (non scritto del: inventato) il Grande Fratello. Il riferimento è ovviamente al format televisivo: “1984” è solo una data che, nella nebulosa mente dei futuri “ricercatori”, è ascrivibile all’Alto Medio Evo; JFK risulta non pervenuto: nessuno o quasi, quattro anni fa, è riuscito a spuntare la casellina che lo indicava come trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Piacerebbe pensare che dietro a tale diniego cognitivo si celasse in realtà una sottile e caustica satira politica, ma temo che così non sia stato; Martin Lutero è nato nel 1815, benedicendo così col suo avvento il Congresso di Vienna. Poi fu ucciso dal Papa (un Papa generico: va benissimo, no?); L’Iran sta in Polinesia: avvisate Ahmadinejad perché visto come girano discinte le levantine rischia di venirgli un coccolone; De Gaulle era un rivoluzionario. Si presume Francese, ma non è detto. Assodato che la sua Quinta Costituzione fu in effetti rivoluzionaria e che, forse, la nazione è stata azzeccata, promuoviamo sulla fiducia; Gandhi venne assassinato da Hitler (uno più o uno meno sul bodycount del dittatore tedesco in fondo non fa differenza); il Watergate era una diga: ai tempi in cui Hoover Dam era Direttore dell’FBI, è lecito supporre; Aldo Moro fu ucciso dalla ‘ndrangheta (qua in effetti andiamo sul difficile: il 1978 è un anno così sideralmente lontano nella percezione dei nostri “ricercatori” d’assalto che equivale all’alba di Sumer…); New York, ovviamente, è la capitale degli Stati Uniti: il Distretto di Columbia è una specie di sestiere popolare destinato ad accasare minoranze precipuamente afro-americane.

Di “perle” di questo genere v’è ogni anno eccelsa sovrabbondanza: una specie di Mare di Oman della beceraggine in salsa giovanilistica. Ora, il dato che emerge destando allarmante preoccupazione è il seguente: siamo di fronte a soggetti che, per la maggior parte, non solo dimostrano di essere usciti completamente immuni da almeno 13 anni di sistema scolastico, ma nemmeno si sono mai sognati di sfogliare un quotidiano in tutta la loro vita, foss’anche stato solo per farsi vento alle pudenda durante una afosa giornata estiva.

Il nefasto avvento della “soluzione finale” telematica ha sferrato poi le ultime, esiziali picconate: la progressiva sostituzione del libro (che è fatto di carta, pesa, implica il saper leggere -forse anche il saper scrivere-, richiede metodo e sacrificio prima che sia consentito di carpirne i segreti insegnamenti) con Wikipedia e viareggiate affini ha demolito la residuale capacità sinaptica (parlare qui di “capacità di analisi critica” della Realtà equivarrebbe a peccare di un romanticismo così naive da risultare stucchevole…) dei nostri futuri professori: tutto, subito, sempre.

Una modalità di fruizione che non getta alcun seme: sterile come il deserto.

Togliete loro l’iPad e si spegneranno come automi con le batterie scariche.

Ma, viene spontaneo chiedersi, da quale specialissima struttura di formazione sono usciti questi neo-barbari, la cui provvista di smodata superbia e pari solo alla loro inaudita insipienza? Semplice: dalla scuola. O, meglio, da quel che ne resta. I mali che affliggono l’istituzione scolastica sono noti, ma è bene qui ribadirli: l’abolizione progressiva degli esami, un momento di formazione e di confronto reale serio, a partire da quelli di 3a e 5a elementare è stata deleteria. L’aver permesso alla psicopedagia d’accatto di entrare trionfante nell’edificio scolastico ha prodotto danni a catena peggio di una pestilenza: la nuova vulgata del “bambino-che-va-capito” ha scalzato completamente l’essenza del ruolo della scuola, ovvero il “bambino-che-va-formato”. L’aver sostituito i “programmi scolastici” con i famigerati POF (piano dell’offerta formativa) è stato un colpo “magistrale”: ogni infamia, infatti, nasce prima come modifica linguistica, come mutamento genetico indotto della parola e, guardate che meraviglia! La “formazione”, unico oggetto sociale della Scuola con la “S” maiuscola”, è divenuta una “offerta”: è il “mercato” bellezza! Nessuno ha specificato, prudentemente, che si tratta di quello del bestiame.

Sono state progressivamente bandite parole come selezione, bocciatura, pro-mozione (nel senso etimologico del termine): perché la nuova e moderna scuola non può né deve essere selettiva. Il Preside, titolo troppo risorgimentale con ogni evidenza, è divenuto dirigente scolastico, ovvero ha cessato di essere quell’entità metafisica e bastarda la cui sola menzione faceva tremare come foglie secche anche gli scavezzacollo più scalmanati: è diventato un burocrate europeisticamente corretto che si occupa fondamentalmente di pubblicizzare la suddetta “offerta formativa”, di fare attività sindacale e, soprattutto, di far girare, simulando entusiasmo forse degno di miglior causa, le circolari che il Ministero gli impone (tirare a campare è un’arte, del resto) su “integrazione”, “problematiche di genere”, “parità del diritto allo studio”, “educazione sessuale”, “La Resistenza” (quella è rimasta: hanno fatto strame di tutto il resto ma il ciarpame resistenziale non si tocca!). E gli insegnanti? Ridotti a parcheggiatori più o meno abusivi, vista la precarietà pressoché assoluta della loro situazione e gli stipendi ridicoli che percepiscono: vessati come sono dal Ministero che impone loro oneri kafkiani i quali nulla hanno a che vedere con l’attività realmente didattica, i più tirano cinicamente ad arrivare a fine mese abbandonandosi quando credono di non essere ascoltati a facezie escatologiche, i pochi che credono all’insegnamento come vocazione e missione in trincea si candidano a crepare di infarto o mal di fegato prima dei quarant’anni.

Debitamente “coadiuvati” nella loro corsa verso il precipizio da famiglie che, come dicevamo poco sopra, sono fermamente convinte della genialità indiscussa di quel figlio del quale, fondamentalmente, non sanno nulla di nulla.

Ora, al di là dei moti nostalgici che pur comprensibili sono destinati a restare lettera morta se non sviluppati proiettivamente verso il futuro, il problema è serio ed è grave. Perché una scuola, e ormai una università, che hanno bandito completamente il concetto stesso di selezione producono come risultato uno dei peggiori mattatoi sociali, un vero e proprio assomoir, che sia possibile immaginare: demandano completamente ogni forma di selezione al mondo del lavoro, senza passaggi intermedi. Mondo del lavoro che, guarda caso, delle psicocazzate da pedagogia d’avanguardia se ne frega altamente. Un colossale tritacarne di fronte alle cui mandibole pochi, pochissimi hanno sviluppato per capacità personale, per fortuna smodata o per raccomandazione adeguati strumenti di difesa.

Questo apre la strada a due ulteriori considerazioni, distinte ma sinergicamente collegate. In primo luogo il disastro educativo e il conseguente senso di profondissima inadeguatezza che ne consegue fanno proliferare a dismisura quella particolare forma di mitologia autonoma che va sotto il nome di dissonanza cognitiva, come teorizzata da Festinger: siccome la Realtà che vedo e percepisco non mi piace e mi terrorizza me ne costruisco un’altra maggiormente rispondente alle mie aspettative e la sostituisco a quella vera, originaria. Si comincia fin da piccoli: un brutto voto è sempre colpa di fattori altri, contingenti, diversi dal “me”. Solitamente è colpa dell’insegnante che non capisce nulla. Un esame fallito all’Università è colpa del solito assistente carogna. Un test di ingresso non passato dipende dalla inopportunità delle domande, non dalla completa inadeguatezza delle risposte. Un colloquio di lavoro andato in vacca dipende dai “soliti raccomandati” che rubano il posto a chi lo merita davvero.

E, per curiosità, domani, un appendicectomia o la somministrazione di un anestetico risoltesi con un bel funerale in pompa magna, di chi saranno colpa?

Il codice dissonante ha schemi e stilemi linguistici precisi ed inequivocabili, i quali sono ormai entrati nel nostro vissuto quotidiano senza che quasi ce ne accorgessimo: “eccellenza”, “ricerca”, “fuga di cervelli”, “raccomandati”, “raccomandanti” e, soprattutto, il migliore in assoluto, ovvero “meritocrazia”. Mantra e slogan che ripetiamo come pappagalli robotici ogni giorno: come se la semplice adesione a questo nuovo, aberrante codice linguistico ci rendesse automaticamente più intelligenti ed interessanti

. Forse è il caso di cominciare a sfatare qualche mito, anche a rischio di far inorridire e piagnucolare impotente qualche animuccia bella: l’Italia, per cominciare, è sempre stato un paese profondamente meritocratico. Fatte salve le fisiologiche eccezioni, poiché il mondo non è perfetto (pare una ovvietà: sapeste quanti sono convinti del contrario oggi…), chi davvero è risultato eccellente nel proprio ambito di studio prima e di lavoro poi ha sempre acquisito fama, ruolo sociale ovvero status, retribuzione e prebende.

Siamo riusciti a generare in anni non sospetti classi dirigenti di assoluto livello, una numerorissima classe media dotata di eccellente formazione e classi popolari alle quale l’alfabetizzazione di massa portò crescita e benefici inimmaginabili nel vuoto pneumatico odierno.

Non solo: questo miracoloso circuito virtuoso garantiva la possibilità di autopromuoversi, ovvero esisteva osmosi tra le diverse classi sociali. Questa è l’unica forma di “meritocrazia” ipotizzabile: perché ha dimostrato di funzionare in concreto, cioè non è mai stata un costrutto artificiale progettato a tavolino e messo a punto in laboratorio. Ovvero la “meritocrazia per legge”: quella che la nuova, soffocante ideologia europeista, pesantemente classista, vorrebbe imporci.

La catastrofe è iniziata poco più di vent’anni fa: “new economy”, “outsourcing”, “società di selezione”, “società di rating”, “certificazioni ISO9000 e ISO9001”, “web economy” e tutto il catafalco di acronimi che hanno caratterizzato il mito del nuovo management. Ebbri di esterofilia come eravamo ai tempi, gonfi di benessere come mongolfiere e pronti a salutare come liberatori i carnefici di “mani pulite” abbiamo abbassato la guardia: i risultati prodotti dalla “nuova frontiera” li vediamo nella loro interezza solo oggi.

La classe media pressoché scomparsa, il tessuto produttivo del paese strappato a brandelli, un nuovo insospettabile boom della tossicodipendenza, l’insurgency di gravissimi problemi di sicurezza e ordine pubblico, lo sfacelo dell’arco politico nel suo insieme. E in mezzo a questo battage d’artiglieria telecomandato da Bruxelles, da Berlino, da New York, si agitano come scimmie impazzite i nostri prodi “ricercatori” in erba: completamente ignari e potentemente narcotizzati da falsi miti, false nozioni, falsi profeti i quali, ovviamente, strepitano di “meritocrazia”.

La seconda considerazione, strettamente connessa alla prima, è la seguente: che cosa rende realmente civile un paese dal punto di vista formativo/didattico e, quindi, lavorativo? Il solito caso clinico, che una volta aveva il buon gusto di starsene al Bar Sport, e solo colà si limitava a filosofeggiare, mentre oggi spesso e volentieri svolge il ruolo di Senatore, Deputato o Ministro, vi risponderà che “civile” è il paese che premia l’eccellenza.

Una cazzata di proporzioni cosmiche: l’ennesimo mito assiomatico, ovvero che non necessità di ulteriori pezze giustificative.

E’ così e basta. E’ così perché lo dicono tutti. E’ così perché ce lo chiede l’Europa. Un’affermazione di massima che prescinde completamente dal dato della Realtà e, in quanto tale, è assolutamente falsa, per non dire delirante. Il paese realmente civile è, casomai, quello che risulta in grado di assorbire tutte o quasi le “giacenze”, ovvero il paese il cui sistema, il cui tessuto sociale e produttivo, il cui welfare sono in grado di creare le condizioni (non necessariamente di “garantire”) affinché tutti i consociati possano trovare una adeguata collocazione sociale e lavorativa.

Facendo un esempio ispirato alla fenomenologia, pensate ad un qualunque ateneo universitario, tipo una facoltà di giurisprudenza: vi risulterebbe “civile” un paese che garantisse possibilità di collocazione solo ed esclusivamente a quell’esigua, microscopica percentuale di studenti che si laurea in cinque anni con 110 e lode? Direi proprio di no.

Ora, coloro che per indubbia capacità personale, metodo e spirito di sacrificio conseguiranno un simile, brillante risultato non avranno alcun problema (o ne avranno molti meno comunque) a trovare lavoro con tutto quel che ne segue (comprare casa, costruire una famiglia, far studiare i figli). Il problema che esige una riconfigurazione quasi palingenetica del nostro assetto politico e sociale è un altro: ovvero ricreare quello specialissimo tipo di fermenti generativi che stanno alla base del rilancio economico, della ricostruzione del nostro disperato e disgregato mercato interno (da sempre motore primario del sistema Italia) che consenta l’assorbimento nel mondo del lavoro non solo degli eccellenti (i quali sono già assorbiti), ma anche dei “molto bravi”, dei “bravini” e, abbiamo finalmente il coraggio di dirlo, anche dei “mediocri”, che sono la maggioranza e che, comunque, possono sempre migliorare o, a fronte di una pur moderata stabilità lavorativa, scoprirsi davvero eccellenti per qualità non immediatamente appetibili per il mondo del lavoro.

Non solo: tutte le categorie summenzionate spendono e consumano.

Un paese che davvero premiasse solo “l’eccellenza” finirebbe come il Paraguay nel volgere di poche settimane: perché non è ipotizzabile che solo ed esclusivamente un 1,5% (e sto sull’abbondante) della popolazione attiva regga autonomamente il suddetto mercato interno. Ergo: di cosa stiamo parlando? Ah! Dimenticavo: di “meritocrazia”. Esticazzi…

Ad maiora

Profezie che si autoavverano: fine di un “berlusconismo” mai esistito – Parte 2 –

Francesco Natale

I limiti dell’uomo 

Parrà banale, ma non si può parlare di “berlusconismo” senza parlare dell’uomo che ha tentato di crearlo, di farne una specie di religione laica, una sorta di “leninismo rovesciato”, nel quale si fondevano assieme gli slanci residuali del vitalismo anni ’80, la dimensione messianica del salvatore dei patrii destini, il culto della personalità spinto al parossismo, ovvero dell’amato/odiato Cavaliere.

Una figura senz’altro problematica e pressoché unica, nel bene come nel male, nel panorama politico italiano e, azzarderei, mondiale.

Un soggetto politico capace di coagulare consensi senza precedenti e al contempo di dissiparli nel volgere di pochi anni, in uno stillicidio estenuante, inarrestabile, inescusabile, avendo manifestato un’attitudine all’autolesionismo pressoché suicida, pienamente ascrivibile ai limiti dell’uomo. Che sono, pari pari, i medesimi limiti del “politico”.

 

Esauriamo subito i pregi, pochi in verità, di cui può valer la pena far menzione: nel 1994 ci ha dato, a noi orfani del pentapartito, una possibilità di scelta, non obbligandoci alla vigliaccata dell’astensione; ha fatto carte false per difendere la vita di Eluana Englaro contro un intero establishment (e metà del suo stesso partito…) che purtroppo prevalse decretandone la condanna a morte; appoggiò la battaglia sulla cosiddetta Legge 40 (una vittoria di Pirro, ma meglio di niente); contribuì in maniera determinante a ridefinire le relazioni internazionali tra Italia, Europa, USA e Russia. Stop. Altro, francamente, non mi viene in mente.

 

Da dove partire, quindi, per enumerare ed analizzare limiti e difetti dell’homo politicus Berlusconi?

Io ho scelto un ambito ben preciso, ovvero quello della sua “riforma” scolastica, poiché esso racchiude tutti i germi virali e virulenti di un approccio “politico” fallimentare già in nuce, abortivo prima ancora di essere concepito, profondamente innaturale e completamente scisso dal dato reale, ovvero dalla specifica tridimensionalità economica, sociale, politica del nostro paese.

Sto parlando della “riforma” impostata sulle famose “tre i”: Internet, Informatica, Inglese.

Una cazzata epocale i cui effetti nefasti continuano a mietere vittime tutt’oggi.

Una cazzata epocale determinata da una miopia inaudita della quale può essere vittima cosciente solo un “cummenda” milanesotto che reca su di sé tutte le stigmate, nessuna esclusa, del parvenù arrichito, fattosi da sé, il quale vede come orizzonte ultimo delle umane cose, come nuova Shangri-La o Xanadù nella quale realizzare “paradiso in terra”, il suo feticcio di sempre: ovvero “l’azienda”.

Il tutto suggellato dal mantra meneghino per antonomasia: lavoro, guadagno, spendo, pretendo.

Quanto di più antipolitico e scioccamente suicida si possa concepire.

Il deturpamento e lo stupro perpetrati a danno della Scuola attraverso le riforme Moratti e Gelmini (né più né meno di quanto comunque fece Berlinguer, sia chiaro) rispondevano, nella mente del Cavaliere, ad un obiettivo ben preciso: trasformare l’istituzione scolastica in “pepiniere” aziendale. La serra, il vivaio nel quale far crescere e proliferare non più discenti “old style”, bensì futuri colletti bianchi, futuri “consulenti”, futuri “dirigenti”. Funzionalismo puro e interconnessione forzosa tra mondi che avrebbero dovuto, come sempre sono stati, essere separati e diversi.

Perché la funzione originaria ed unica della Scuola NON consiste nel formare “key account”, “HR manager” o “application” di varia forma e specie. Consiste, casomai, nel fornire nozioni, metodo, apparato critico, disciplina, capacità di leggere e interpretare il Reale, acquisire fluidità nello scrivere, parlare, pensare. Mettere a frutto, stimolare e sviluppare i Doni che la Provvidenza dà ad ogni singolo, in quanto entità unica ed irripetibile, il tutto attraverso l’autorevolezza e la preparazione del docente.

Altra cosa è il mondo del lavoro, sia esso la famigerata “azienda” o il tanto vituperato ente pubblico, sia esso la bottega di arrotino o lo studio legale di grido.

Senza contare che, grazie comunque Presidente, “internet, informatica e Inglese” la mia generazione se li è “imparati” da sola, senza necessità di inutili ed estenuanti “corsi specifici” che hanno rubato spazio e tempo a ben più utili materie, proprio grazie al metodo ed agli stimoli che la nostra Scuola ci ha dato. Una Scuola certamente più dura di quella attuale, ma che almeno ci risparmiava puttanate di rarissima insipienza quali i “crediti formativi”, i POF (piani dell’offerta formativa), le “tesine”, gli stage aziendali a metà quinquennio, la creazione di “licei sperimentali” fallimentari ab origine creati e concepiti per far fronte alle “esigenze di mercato”. Tutta mitografia tribale ispirata dal nuovo “credo” dell’imprenditorialità d’assalto. Un tentativo di omologazione aberrante purtroppo riuscito alla perfezione, che ha, per altro, contribuito alla ricostituzione de facto di un’Italia profondamente classista quale è quella in cui stiamo attualmente vivendo: perché i pochi che hanno potuto, grazie a risorse economiche non esattamente comuni, hanno fatto giustamente i salti mortali per salvare i propri rampolli dal suo “sistema scolastico” ispirato al mercatismo.

Da qui seguono ulteriori considerazioni strettamente interconnesse: così come la Scuola è stata considerata ancillare rispetto al Moloch “azienda”, il Cavaliere ha preteso di gestire lo Stato e le Istituzioni alla stregua di una holding operativa. Antipolitica a mazzi, nuovamente. Dalla “selezione” della classe dirigente (che meriterà apposita trattazione più avanti) alla convinzione fermissima e inscalfibile che il Parlamento fosse una proverbiale “palla al piede, passando per il candido stupore infantile e piccato ogni qual volta egli si sentiva sparare un “no” secco dalla macchina statale (cosa inaudita per chi è abituato a far tremare tutti in un CDA), i prodromi del disastroso fallimento c’erano tutti. Non averli saputi cogliere per tempo è colpa. Ai limiti del dolo, se vogliamo.

Perché per governare davvero questo squinternato e meraviglioso paese non basta costruirsi un partito apologetico senza se e senza ma, una classe dirigente di “yesmen” festanti e giubilanti incapaci di trovarsi il buco del culo con due mani e una mappa, raggranellare percentuali e consensi bulgari senza precedenti, avere amplissima disponibilità di mezzi e risorse. Serve, con ogni evidenza, qualcosa di più. Ovvero la comprensione ELEMENTARE delle regole del gioco e, soprattutto, capire il come ed il perché l’Italia non è, né mai è stato, un paese governabile da un solo, singolo uomo.

 

Ma come può essere possibile per chi vive nel terrore costante di essere messo in ombra costituire una squadra si soggetti agguerriti, scafati, preparati, bastardi e corsari al punto giusto per saper gestire trattative bizantine, capaci di reggere deleghe pesanti e di assumersene conseguentemente la responsabilità? No. Non è possibile. Molto più rassicurante fare terra bruciata, sterilizzare sul nascere potenziali “concorrenti”, circondarsi di lacché e cortigiane. Per poi cadere, come è ovvio, nella più insopportabile ed inescusabile delle sindromi da “cummenda”: il vittimismo.

Innumerevoli sono le occasioni in cui abbiamo sentito il Cavaliere lagnarsi seguendo il solito leidmotiv: “Non mi hanno lasciato governare”, “Se non sono riuscito a fare è colpa dei traditori”, “L’Europa ce l’ha con me”, “Obama ce l’ha con me”, “La Merkel ce l’ha con me”, “La magistratura comunista blah blah blah”.

Uno scenario tra i più tristi ed esecrabili che si possano immaginare: il totale rifiuto di ogni assunzione di responsabilità e la colpa percepita come qualcosa che riguarda sempre e comunque soggetti terzi, altri da sé.

Il tutto sbiascicando sempre la solita menata di torrone sulla “rivoluzione liberale” (laddove se c’è una categoria rivelatasi metastatica e deleteria per l’Italia degli ultimi vent’anni sono stati proprio i cosiddetti “liberali”…), su quanti siano cattivi i dipendenti pubblici, rimasti pressoché l’unica backbone che regge ancora un poco il mercato interno oggi, sulla necessità di ridurre tasse e gabelle per poi aumentarle passando dalla porta di servizio, sul mito sempiterno e dogmatico ai limiti del talebanismo del “fare impresa”.

Un insieme di complessi di inferiorità genetici o, comunque, congeniti alla storia personale e professionale del Cavaliere. Limiti insuperabili connaturati al suo oggettivo successo imprenditoriale che, forse in buona fede, lo hanno indotto al più grossolano degli errori: credere fermamente che ogni “cosa”, intesa come “res”, ed ogni singola persona recassero il cartellino del prezzo attaccato addosso e fossero oggetto, sempre e comunque, di “valutazione di mercato”. Epic Fail, insomma…

 

Ad Maiora