Profezie che si autoavverano: fine di un “berlusconismo” mai esistito – Parte 2 –

Francesco Natale

I limiti dell’uomo 

Parrà banale, ma non si può parlare di “berlusconismo” senza parlare dell’uomo che ha tentato di crearlo, di farne una specie di religione laica, una sorta di “leninismo rovesciato”, nel quale si fondevano assieme gli slanci residuali del vitalismo anni ’80, la dimensione messianica del salvatore dei patrii destini, il culto della personalità spinto al parossismo, ovvero dell’amato/odiato Cavaliere.

Una figura senz’altro problematica e pressoché unica, nel bene come nel male, nel panorama politico italiano e, azzarderei, mondiale.

Un soggetto politico capace di coagulare consensi senza precedenti e al contempo di dissiparli nel volgere di pochi anni, in uno stillicidio estenuante, inarrestabile, inescusabile, avendo manifestato un’attitudine all’autolesionismo pressoché suicida, pienamente ascrivibile ai limiti dell’uomo. Che sono, pari pari, i medesimi limiti del “politico”.

 

Esauriamo subito i pregi, pochi in verità, di cui può valer la pena far menzione: nel 1994 ci ha dato, a noi orfani del pentapartito, una possibilità di scelta, non obbligandoci alla vigliaccata dell’astensione; ha fatto carte false per difendere la vita di Eluana Englaro contro un intero establishment (e metà del suo stesso partito…) che purtroppo prevalse decretandone la condanna a morte; appoggiò la battaglia sulla cosiddetta Legge 40 (una vittoria di Pirro, ma meglio di niente); contribuì in maniera determinante a ridefinire le relazioni internazionali tra Italia, Europa, USA e Russia. Stop. Altro, francamente, non mi viene in mente.

 

Da dove partire, quindi, per enumerare ed analizzare limiti e difetti dell’homo politicus Berlusconi?

Io ho scelto un ambito ben preciso, ovvero quello della sua “riforma” scolastica, poiché esso racchiude tutti i germi virali e virulenti di un approccio “politico” fallimentare già in nuce, abortivo prima ancora di essere concepito, profondamente innaturale e completamente scisso dal dato reale, ovvero dalla specifica tridimensionalità economica, sociale, politica del nostro paese.

Sto parlando della “riforma” impostata sulle famose “tre i”: Internet, Informatica, Inglese.

Una cazzata epocale i cui effetti nefasti continuano a mietere vittime tutt’oggi.

Una cazzata epocale determinata da una miopia inaudita della quale può essere vittima cosciente solo un “cummenda” milanesotto che reca su di sé tutte le stigmate, nessuna esclusa, del parvenù arrichito, fattosi da sé, il quale vede come orizzonte ultimo delle umane cose, come nuova Shangri-La o Xanadù nella quale realizzare “paradiso in terra”, il suo feticcio di sempre: ovvero “l’azienda”.

Il tutto suggellato dal mantra meneghino per antonomasia: lavoro, guadagno, spendo, pretendo.

Quanto di più antipolitico e scioccamente suicida si possa concepire.

Il deturpamento e lo stupro perpetrati a danno della Scuola attraverso le riforme Moratti e Gelmini (né più né meno di quanto comunque fece Berlinguer, sia chiaro) rispondevano, nella mente del Cavaliere, ad un obiettivo ben preciso: trasformare l’istituzione scolastica in “pepiniere” aziendale. La serra, il vivaio nel quale far crescere e proliferare non più discenti “old style”, bensì futuri colletti bianchi, futuri “consulenti”, futuri “dirigenti”. Funzionalismo puro e interconnessione forzosa tra mondi che avrebbero dovuto, come sempre sono stati, essere separati e diversi.

Perché la funzione originaria ed unica della Scuola NON consiste nel formare “key account”, “HR manager” o “application” di varia forma e specie. Consiste, casomai, nel fornire nozioni, metodo, apparato critico, disciplina, capacità di leggere e interpretare il Reale, acquisire fluidità nello scrivere, parlare, pensare. Mettere a frutto, stimolare e sviluppare i Doni che la Provvidenza dà ad ogni singolo, in quanto entità unica ed irripetibile, il tutto attraverso l’autorevolezza e la preparazione del docente.

Altra cosa è il mondo del lavoro, sia esso la famigerata “azienda” o il tanto vituperato ente pubblico, sia esso la bottega di arrotino o lo studio legale di grido.

Senza contare che, grazie comunque Presidente, “internet, informatica e Inglese” la mia generazione se li è “imparati” da sola, senza necessità di inutili ed estenuanti “corsi specifici” che hanno rubato spazio e tempo a ben più utili materie, proprio grazie al metodo ed agli stimoli che la nostra Scuola ci ha dato. Una Scuola certamente più dura di quella attuale, ma che almeno ci risparmiava puttanate di rarissima insipienza quali i “crediti formativi”, i POF (piani dell’offerta formativa), le “tesine”, gli stage aziendali a metà quinquennio, la creazione di “licei sperimentali” fallimentari ab origine creati e concepiti per far fronte alle “esigenze di mercato”. Tutta mitografia tribale ispirata dal nuovo “credo” dell’imprenditorialità d’assalto. Un tentativo di omologazione aberrante purtroppo riuscito alla perfezione, che ha, per altro, contribuito alla ricostituzione de facto di un’Italia profondamente classista quale è quella in cui stiamo attualmente vivendo: perché i pochi che hanno potuto, grazie a risorse economiche non esattamente comuni, hanno fatto giustamente i salti mortali per salvare i propri rampolli dal suo “sistema scolastico” ispirato al mercatismo.

Da qui seguono ulteriori considerazioni strettamente interconnesse: così come la Scuola è stata considerata ancillare rispetto al Moloch “azienda”, il Cavaliere ha preteso di gestire lo Stato e le Istituzioni alla stregua di una holding operativa. Antipolitica a mazzi, nuovamente. Dalla “selezione” della classe dirigente (che meriterà apposita trattazione più avanti) alla convinzione fermissima e inscalfibile che il Parlamento fosse una proverbiale “palla al piede, passando per il candido stupore infantile e piccato ogni qual volta egli si sentiva sparare un “no” secco dalla macchina statale (cosa inaudita per chi è abituato a far tremare tutti in un CDA), i prodromi del disastroso fallimento c’erano tutti. Non averli saputi cogliere per tempo è colpa. Ai limiti del dolo, se vogliamo.

Perché per governare davvero questo squinternato e meraviglioso paese non basta costruirsi un partito apologetico senza se e senza ma, una classe dirigente di “yesmen” festanti e giubilanti incapaci di trovarsi il buco del culo con due mani e una mappa, raggranellare percentuali e consensi bulgari senza precedenti, avere amplissima disponibilità di mezzi e risorse. Serve, con ogni evidenza, qualcosa di più. Ovvero la comprensione ELEMENTARE delle regole del gioco e, soprattutto, capire il come ed il perché l’Italia non è, né mai è stato, un paese governabile da un solo, singolo uomo.

 

Ma come può essere possibile per chi vive nel terrore costante di essere messo in ombra costituire una squadra si soggetti agguerriti, scafati, preparati, bastardi e corsari al punto giusto per saper gestire trattative bizantine, capaci di reggere deleghe pesanti e di assumersene conseguentemente la responsabilità? No. Non è possibile. Molto più rassicurante fare terra bruciata, sterilizzare sul nascere potenziali “concorrenti”, circondarsi di lacché e cortigiane. Per poi cadere, come è ovvio, nella più insopportabile ed inescusabile delle sindromi da “cummenda”: il vittimismo.

Innumerevoli sono le occasioni in cui abbiamo sentito il Cavaliere lagnarsi seguendo il solito leidmotiv: “Non mi hanno lasciato governare”, “Se non sono riuscito a fare è colpa dei traditori”, “L’Europa ce l’ha con me”, “Obama ce l’ha con me”, “La Merkel ce l’ha con me”, “La magistratura comunista blah blah blah”.

Uno scenario tra i più tristi ed esecrabili che si possano immaginare: il totale rifiuto di ogni assunzione di responsabilità e la colpa percepita come qualcosa che riguarda sempre e comunque soggetti terzi, altri da sé.

Il tutto sbiascicando sempre la solita menata di torrone sulla “rivoluzione liberale” (laddove se c’è una categoria rivelatasi metastatica e deleteria per l’Italia degli ultimi vent’anni sono stati proprio i cosiddetti “liberali”…), su quanti siano cattivi i dipendenti pubblici, rimasti pressoché l’unica backbone che regge ancora un poco il mercato interno oggi, sulla necessità di ridurre tasse e gabelle per poi aumentarle passando dalla porta di servizio, sul mito sempiterno e dogmatico ai limiti del talebanismo del “fare impresa”.

Un insieme di complessi di inferiorità genetici o, comunque, congeniti alla storia personale e professionale del Cavaliere. Limiti insuperabili connaturati al suo oggettivo successo imprenditoriale che, forse in buona fede, lo hanno indotto al più grossolano degli errori: credere fermamente che ogni “cosa”, intesa come “res”, ed ogni singola persona recassero il cartellino del prezzo attaccato addosso e fossero oggetto, sempre e comunque, di “valutazione di mercato”. Epic Fail, insomma…

 

Ad Maiora