NUOVI FETICCI METAFISICI: LA “RICERCA”

Francesco Natale

Ogni anno svariate migliaia di neodiplomati si cimentano nel famigerato test di ingresso per le facoltà di medicina e veterinaria. Leggere ed analizzare i risultati di tali test è procedura che genera una sorta di perversa fascinazione, come quando si resta estaticamente colpiti (per qualche istante, almeno) di fronte ad un tamponamento a catena particolarmente ben riuscito o a un disastro ferroviario di notevole magnitudine.

Ogni anno migliaia di neodiplomati, puntuali come un attacco di febbre quartana, protestano. Protestano perché dal loro punto di vista quelle 40 domande di cultura generale proprio non dovrebbero trovar albergo in un test di ammissione a medicina: loro sono lì per dimostrare quale straordinaria competenza abbiano acquisito in chimica, fisica, matematica durante le scuole superiori. Mica hanno tempo da perdere, lor signorini, con Cicerone, Platone, Lutero e Theodore Roosevelt.

Debitamente pompati e anabolizzati dalla prosopopea di familiari convinti di aver allevato cloni di Enrico Fermi, questi saltafossi occupano aule e piazze, danno la caccia a microfoni e telecamere, prospettano già a 18 anni il loro futuro da “ricercatori”, denunciano l’abuso inaudito del non aver visto riconosciuto, vezzeggiato ed incensato il loro indiscutibile genio da commissioni d’esame evidentemente non preparate, loro, a capire che è ora di finirla col nozionismo: la fantasia è tornata al potere!

Che la fantasia sia tornata prepotentemente alla ribalta non è un mistero: George Orwell avrebbe inventato (non scritto del: inventato) il Grande Fratello. Il riferimento è ovviamente al format televisivo: “1984” è solo una data che, nella nebulosa mente dei futuri “ricercatori”, è ascrivibile all’Alto Medio Evo; JFK risulta non pervenuto: nessuno o quasi, quattro anni fa, è riuscito a spuntare la casellina che lo indicava come trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Piacerebbe pensare che dietro a tale diniego cognitivo si celasse in realtà una sottile e caustica satira politica, ma temo che così non sia stato; Martin Lutero è nato nel 1815, benedicendo così col suo avvento il Congresso di Vienna. Poi fu ucciso dal Papa (un Papa generico: va benissimo, no?); L’Iran sta in Polinesia: avvisate Ahmadinejad perché visto come girano discinte le levantine rischia di venirgli un coccolone; De Gaulle era un rivoluzionario. Si presume Francese, ma non è detto. Assodato che la sua Quinta Costituzione fu in effetti rivoluzionaria e che, forse, la nazione è stata azzeccata, promuoviamo sulla fiducia; Gandhi venne assassinato da Hitler (uno più o uno meno sul bodycount del dittatore tedesco in fondo non fa differenza); il Watergate era una diga: ai tempi in cui Hoover Dam era Direttore dell’FBI, è lecito supporre; Aldo Moro fu ucciso dalla ‘ndrangheta (qua in effetti andiamo sul difficile: il 1978 è un anno così sideralmente lontano nella percezione dei nostri “ricercatori” d’assalto che equivale all’alba di Sumer…); New York, ovviamente, è la capitale degli Stati Uniti: il Distretto di Columbia è una specie di sestiere popolare destinato ad accasare minoranze precipuamente afro-americane.

Di “perle” di questo genere v’è ogni anno eccelsa sovrabbondanza: una specie di Mare di Oman della beceraggine in salsa giovanilistica. Ora, il dato che emerge destando allarmante preoccupazione è il seguente: siamo di fronte a soggetti che, per la maggior parte, non solo dimostrano di essere usciti completamente immuni da almeno 13 anni di sistema scolastico, ma nemmeno si sono mai sognati di sfogliare un quotidiano in tutta la loro vita, foss’anche stato solo per farsi vento alle pudenda durante una afosa giornata estiva.

Il nefasto avvento della “soluzione finale” telematica ha sferrato poi le ultime, esiziali picconate: la progressiva sostituzione del libro (che è fatto di carta, pesa, implica il saper leggere -forse anche il saper scrivere-, richiede metodo e sacrificio prima che sia consentito di carpirne i segreti insegnamenti) con Wikipedia e viareggiate affini ha demolito la residuale capacità sinaptica (parlare qui di “capacità di analisi critica” della Realtà equivarrebbe a peccare di un romanticismo così naive da risultare stucchevole…) dei nostri futuri professori: tutto, subito, sempre.

Una modalità di fruizione che non getta alcun seme: sterile come il deserto.

Togliete loro l’iPad e si spegneranno come automi con le batterie scariche.

Ma, viene spontaneo chiedersi, da quale specialissima struttura di formazione sono usciti questi neo-barbari, la cui provvista di smodata superbia e pari solo alla loro inaudita insipienza? Semplice: dalla scuola. O, meglio, da quel che ne resta. I mali che affliggono l’istituzione scolastica sono noti, ma è bene qui ribadirli: l’abolizione progressiva degli esami, un momento di formazione e di confronto reale serio, a partire da quelli di 3a e 5a elementare è stata deleteria. L’aver permesso alla psicopedagia d’accatto di entrare trionfante nell’edificio scolastico ha prodotto danni a catena peggio di una pestilenza: la nuova vulgata del “bambino-che-va-capito” ha scalzato completamente l’essenza del ruolo della scuola, ovvero il “bambino-che-va-formato”. L’aver sostituito i “programmi scolastici” con i famigerati POF (piano dell’offerta formativa) è stato un colpo “magistrale”: ogni infamia, infatti, nasce prima come modifica linguistica, come mutamento genetico indotto della parola e, guardate che meraviglia! La “formazione”, unico oggetto sociale della Scuola con la “S” maiuscola”, è divenuta una “offerta”: è il “mercato” bellezza! Nessuno ha specificato, prudentemente, che si tratta di quello del bestiame.

Sono state progressivamente bandite parole come selezione, bocciatura, pro-mozione (nel senso etimologico del termine): perché la nuova e moderna scuola non può né deve essere selettiva. Il Preside, titolo troppo risorgimentale con ogni evidenza, è divenuto dirigente scolastico, ovvero ha cessato di essere quell’entità metafisica e bastarda la cui sola menzione faceva tremare come foglie secche anche gli scavezzacollo più scalmanati: è diventato un burocrate europeisticamente corretto che si occupa fondamentalmente di pubblicizzare la suddetta “offerta formativa”, di fare attività sindacale e, soprattutto, di far girare, simulando entusiasmo forse degno di miglior causa, le circolari che il Ministero gli impone (tirare a campare è un’arte, del resto) su “integrazione”, “problematiche di genere”, “parità del diritto allo studio”, “educazione sessuale”, “La Resistenza” (quella è rimasta: hanno fatto strame di tutto il resto ma il ciarpame resistenziale non si tocca!). E gli insegnanti? Ridotti a parcheggiatori più o meno abusivi, vista la precarietà pressoché assoluta della loro situazione e gli stipendi ridicoli che percepiscono: vessati come sono dal Ministero che impone loro oneri kafkiani i quali nulla hanno a che vedere con l’attività realmente didattica, i più tirano cinicamente ad arrivare a fine mese abbandonandosi quando credono di non essere ascoltati a facezie escatologiche, i pochi che credono all’insegnamento come vocazione e missione in trincea si candidano a crepare di infarto o mal di fegato prima dei quarant’anni.

Debitamente “coadiuvati” nella loro corsa verso il precipizio da famiglie che, come dicevamo poco sopra, sono fermamente convinte della genialità indiscussa di quel figlio del quale, fondamentalmente, non sanno nulla di nulla.

Ora, al di là dei moti nostalgici che pur comprensibili sono destinati a restare lettera morta se non sviluppati proiettivamente verso il futuro, il problema è serio ed è grave. Perché una scuola, e ormai una università, che hanno bandito completamente il concetto stesso di selezione producono come risultato uno dei peggiori mattatoi sociali, un vero e proprio assomoir, che sia possibile immaginare: demandano completamente ogni forma di selezione al mondo del lavoro, senza passaggi intermedi. Mondo del lavoro che, guarda caso, delle psicocazzate da pedagogia d’avanguardia se ne frega altamente. Un colossale tritacarne di fronte alle cui mandibole pochi, pochissimi hanno sviluppato per capacità personale, per fortuna smodata o per raccomandazione adeguati strumenti di difesa.

Questo apre la strada a due ulteriori considerazioni, distinte ma sinergicamente collegate. In primo luogo il disastro educativo e il conseguente senso di profondissima inadeguatezza che ne consegue fanno proliferare a dismisura quella particolare forma di mitologia autonoma che va sotto il nome di dissonanza cognitiva, come teorizzata da Festinger: siccome la Realtà che vedo e percepisco non mi piace e mi terrorizza me ne costruisco un’altra maggiormente rispondente alle mie aspettative e la sostituisco a quella vera, originaria. Si comincia fin da piccoli: un brutto voto è sempre colpa di fattori altri, contingenti, diversi dal “me”. Solitamente è colpa dell’insegnante che non capisce nulla. Un esame fallito all’Università è colpa del solito assistente carogna. Un test di ingresso non passato dipende dalla inopportunità delle domande, non dalla completa inadeguatezza delle risposte. Un colloquio di lavoro andato in vacca dipende dai “soliti raccomandati” che rubano il posto a chi lo merita davvero.

E, per curiosità, domani, un appendicectomia o la somministrazione di un anestetico risoltesi con un bel funerale in pompa magna, di chi saranno colpa?

Il codice dissonante ha schemi e stilemi linguistici precisi ed inequivocabili, i quali sono ormai entrati nel nostro vissuto quotidiano senza che quasi ce ne accorgessimo: “eccellenza”, “ricerca”, “fuga di cervelli”, “raccomandati”, “raccomandanti” e, soprattutto, il migliore in assoluto, ovvero “meritocrazia”. Mantra e slogan che ripetiamo come pappagalli robotici ogni giorno: come se la semplice adesione a questo nuovo, aberrante codice linguistico ci rendesse automaticamente più intelligenti ed interessanti

. Forse è il caso di cominciare a sfatare qualche mito, anche a rischio di far inorridire e piagnucolare impotente qualche animuccia bella: l’Italia, per cominciare, è sempre stato un paese profondamente meritocratico. Fatte salve le fisiologiche eccezioni, poiché il mondo non è perfetto (pare una ovvietà: sapeste quanti sono convinti del contrario oggi…), chi davvero è risultato eccellente nel proprio ambito di studio prima e di lavoro poi ha sempre acquisito fama, ruolo sociale ovvero status, retribuzione e prebende.

Siamo riusciti a generare in anni non sospetti classi dirigenti di assoluto livello, una numerorissima classe media dotata di eccellente formazione e classi popolari alle quale l’alfabetizzazione di massa portò crescita e benefici inimmaginabili nel vuoto pneumatico odierno.

Non solo: questo miracoloso circuito virtuoso garantiva la possibilità di autopromuoversi, ovvero esisteva osmosi tra le diverse classi sociali. Questa è l’unica forma di “meritocrazia” ipotizzabile: perché ha dimostrato di funzionare in concreto, cioè non è mai stata un costrutto artificiale progettato a tavolino e messo a punto in laboratorio. Ovvero la “meritocrazia per legge”: quella che la nuova, soffocante ideologia europeista, pesantemente classista, vorrebbe imporci.

La catastrofe è iniziata poco più di vent’anni fa: “new economy”, “outsourcing”, “società di selezione”, “società di rating”, “certificazioni ISO9000 e ISO9001”, “web economy” e tutto il catafalco di acronimi che hanno caratterizzato il mito del nuovo management. Ebbri di esterofilia come eravamo ai tempi, gonfi di benessere come mongolfiere e pronti a salutare come liberatori i carnefici di “mani pulite” abbiamo abbassato la guardia: i risultati prodotti dalla “nuova frontiera” li vediamo nella loro interezza solo oggi.

La classe media pressoché scomparsa, il tessuto produttivo del paese strappato a brandelli, un nuovo insospettabile boom della tossicodipendenza, l’insurgency di gravissimi problemi di sicurezza e ordine pubblico, lo sfacelo dell’arco politico nel suo insieme. E in mezzo a questo battage d’artiglieria telecomandato da Bruxelles, da Berlino, da New York, si agitano come scimmie impazzite i nostri prodi “ricercatori” in erba: completamente ignari e potentemente narcotizzati da falsi miti, false nozioni, falsi profeti i quali, ovviamente, strepitano di “meritocrazia”.

La seconda considerazione, strettamente connessa alla prima, è la seguente: che cosa rende realmente civile un paese dal punto di vista formativo/didattico e, quindi, lavorativo? Il solito caso clinico, che una volta aveva il buon gusto di starsene al Bar Sport, e solo colà si limitava a filosofeggiare, mentre oggi spesso e volentieri svolge il ruolo di Senatore, Deputato o Ministro, vi risponderà che “civile” è il paese che premia l’eccellenza.

Una cazzata di proporzioni cosmiche: l’ennesimo mito assiomatico, ovvero che non necessità di ulteriori pezze giustificative.

E’ così e basta. E’ così perché lo dicono tutti. E’ così perché ce lo chiede l’Europa. Un’affermazione di massima che prescinde completamente dal dato della Realtà e, in quanto tale, è assolutamente falsa, per non dire delirante. Il paese realmente civile è, casomai, quello che risulta in grado di assorbire tutte o quasi le “giacenze”, ovvero il paese il cui sistema, il cui tessuto sociale e produttivo, il cui welfare sono in grado di creare le condizioni (non necessariamente di “garantire”) affinché tutti i consociati possano trovare una adeguata collocazione sociale e lavorativa.

Facendo un esempio ispirato alla fenomenologia, pensate ad un qualunque ateneo universitario, tipo una facoltà di giurisprudenza: vi risulterebbe “civile” un paese che garantisse possibilità di collocazione solo ed esclusivamente a quell’esigua, microscopica percentuale di studenti che si laurea in cinque anni con 110 e lode? Direi proprio di no.

Ora, coloro che per indubbia capacità personale, metodo e spirito di sacrificio conseguiranno un simile, brillante risultato non avranno alcun problema (o ne avranno molti meno comunque) a trovare lavoro con tutto quel che ne segue (comprare casa, costruire una famiglia, far studiare i figli). Il problema che esige una riconfigurazione quasi palingenetica del nostro assetto politico e sociale è un altro: ovvero ricreare quello specialissimo tipo di fermenti generativi che stanno alla base del rilancio economico, della ricostruzione del nostro disperato e disgregato mercato interno (da sempre motore primario del sistema Italia) che consenta l’assorbimento nel mondo del lavoro non solo degli eccellenti (i quali sono già assorbiti), ma anche dei “molto bravi”, dei “bravini” e, abbiamo finalmente il coraggio di dirlo, anche dei “mediocri”, che sono la maggioranza e che, comunque, possono sempre migliorare o, a fronte di una pur moderata stabilità lavorativa, scoprirsi davvero eccellenti per qualità non immediatamente appetibili per il mondo del lavoro.

Non solo: tutte le categorie summenzionate spendono e consumano.

Un paese che davvero premiasse solo “l’eccellenza” finirebbe come il Paraguay nel volgere di poche settimane: perché non è ipotizzabile che solo ed esclusivamente un 1,5% (e sto sull’abbondante) della popolazione attiva regga autonomamente il suddetto mercato interno. Ergo: di cosa stiamo parlando? Ah! Dimenticavo: di “meritocrazia”. Esticazzi…

Ad maiora