Orchesse e sciacalli che applaudono ai funerali

Di Francesco Natale

Vedete, io vi vedo.

Nonostante la fatica e il voltastomaco che mi comporta, vi vedo.

Promotori di “flash-mob”, campioni di piagnisteo pur di avere 35 secondi di visibilità, cooperativi le cui “cooperative” non hanno mai fatto un cazzo se non prosciugare qualche ricchissimo finanziamento statale, strepitanti tribadi con una cattedra a Utrecht (il che, già geograficamente&storicamente, dice tutto. Ma proprio tutto).

Vi vedo.

Vi guardo.

Vi disseziono senza alcuna difficoltà, perché nel vostro Essere sub-umano siete perfettamente leggibili.

Il vostro obiettivo, infami orchesse e nefandi invertiti, è mettere le mani sui Bambini.

Non esiste lago di sangue troppo profondo che non siate disposti ad attraversare pur di metter le mani sui nostri Figli.

Ogni efferato omicidio che vede come vittima una Donna diventa pretesto.

Sfruttato, come una vincita al casinò, pur di promuovere la vostra abominevole agenda.

Nelle vostre scrivanie, come in quella di un notissimo trombato alle Elezioni Regionali qualche decennio fa, ci sono già pronte le liste.

Dei papabili di assunzione.

“Psicologi”, “consulenti”, “tecnici”, “esperti”.

Una masnada di parassiti che, tuttavia, siccome “tengono famiglia”, sono individuati come potenziale bacino elettorale inesauribile.

Ma c’è, ovviamente, qualcosa di più profondo.

Luciferino.

Demoniaco.

L’idea stessa che “lo stato”, e solo “lo stato” sia in grado di “educare”.

L’indegna polemica d’oggidì solo questo riguarda: denaro da un lato, potere dall’altro.

Queste colossali facce di merda il cui negletto culo travalica i limiti d’una povera sedia tra Parigi, Roma, la summenzionata Utrecht non vedono l’ora d’avere prebende e potere.

Prebende e POTERE.

Soldi.

E impunità nel determinare “l’educazione” dei nostri Figli.

Viene uccisa una ragazza?

Pronti a cogliere la palla al balzo.

Perché questo, esattamente questo diviene sublimazione e sintesi di vite non solo fallite, ma disgregate.

Non par loro vero di potersi vendicare.

Di poter finalmente dire “ORA tocca a me!”

Chi psicanalizza gli psicologi?

Non è dato di saperlo.

Così come i magistrati, i “filosofi”, i “virologi”, essi non rispondono a nessuno: libertà assoluta.

Indipendentemente dalle colossali cazzate che sparano.

O, nel caso dei magistrati, delle nefandezze che ingiustamente fanno subire a tanti, troppi consociati, compiacendosi del proprio assoluto arbitrio.

Ma veniamo ai Funerali del titolo.

Vedo voi.

Voi che applaudite di fronte ad una bara.

Vi piace il mogano forse?

A me si, ok, ma mi astengo dal recarmi in segheria col cazzo in mano ed i lacrimoni agli occhi per gratificare i legnaiuoli.

Quanto ci godete, nel far vedere quanto “soffrite”.

Amate i “gesti simbolici”, salvo poi doverli spiegare perché nessuno li ha capiti.

Vi smanacciate le pudenda sui “social” cercando d’esser più toccanti di Siffredi quando chiava o di Emily Bronte quando scrive.

Fate non poco schifo.

Perché in voi non c’è nessuna pudicizia, nessuna discrezione: il “dolore”, la “indignazione”, “l’odio” -merce rara che non andrebbe sprecata, per altro-, sono un condimento.

L’aceto balsamico che spruzzate sulla miseria inenarrabile delle vostre vite.

Dovete mostrare: o nulla siete.

Il ché andrebbe pure bene se foste musicisti (o Siffredi, ok…)

Voi mostrate la vostra “bravura” nel lacrimare a cose avvenute.

Come quelli che non poco tempo fa dimostravano quanto erano bravi a “stare a casa”.

Cosa vi costa, nel concreto, questo?

Nulla.

Stralabiate di “pikkoli anceli kaduti”, frasette da agenda smemoranda, “un po’dolce un po’ bastarda”, “sarai sempre con noi”.

Apparenza pura.

E non delle migliori.

Perché?

Perché io vi vedo.

Quotidianamente.

E SO che siete parte, se non origine assoluta del problema.

Interrogatevi, se ne avete il coraggio: quanti e quante di voi sanno dove trovare un grammo di cocaina se ne hanno voglia?

Quanti e quante di voi in nome di “consapevolezza” e “autodeterminazione” (parole che di per sé non significano assolutamente un cazzo) “lasciano correre”, voltano la faccia dall’altra parte, si fanno “i cazzi loro”, sport nazionale nella mia prima terra d’adozione, la Liguria?

Dove finiscono i “cazzi miei” e dove cominciano situazioni aberranti contro le quali posso fare qualcosa?

Attendo ancora risposta.

Nel frattempo mi sono premurato di chiamare la Forza Pubblica 19 volte negli ultimi 4 anni (sono nottambulo) e di aver messo per cappello, sfondandola, una televisione nuova all’ultimo imbecille che si è azzardato ad offrirmi cocaina al bancone di un bar.

Tutto parte dal piccolo.

Come il Cazzo, se volete e vi è più affine.

Ora, vedete, io risiedo abitualmente a 3 chilometri dalla casa del nuovo “mostro”.

Ho imparato ad amare questa seconda Terra d’adozione, vedendone il Bello -che è smisurato- e percependone il brutto, che poco non è.

E’ Terra complessa e stratificata.

Io ci sto bene: ho una bella casa, pile di libri su ogni superficie, chitarre con 100 Watt di amplificazione, pescivendoli, edicolanti, ristoratori e macellai con cui ho instaurato rapporti ormai non più solo commerciali ma oserei dire quasi d’amicizia.

Amo girare in macchina per il Cinto Euganeo, giusto per il gusto di farlo.

Si vedono belle cose, tra rocche, castelli, boschi, ville palladiane

Ma.

Ascolto.

Guardo.

Vedo.

A volte, troppo spesso anzi, si percepisce un degrado latente fuori parametro.

Cosiddetti “giovani” dispersi, liquefatti dalla droga, ovvero da una “cultura libertaria” della quale sono solo vittime e non protagonisti.

Il Sesso dato per scontato: aiuta a vincere la noia di una Provincia che, se possibile, è ancor più Provincia di quella ligure.

Il Sesso come merce di scambio: per una dose, per una ricarica, per una vacanza.

La smania, sottotraccia in alcuni, ben più pressante in quasi tutti gli altri di “essere”: ed “essere” qui vuol dire apparire.

Avere.

Spacciare per avere.

Consumare e consumarsi per “essere”.

Basta ascoltarli, in un bar casuale o in una pizzeria estemporanea: chi chiava con chi, dove la trovo a meno (la droga), forse me la da stasera (la Fica), ci spero (entrambe le cose).

Se poi frequentate una palestra, non ne parliamo: vi renderete conto di quanto la beceraggine congenita domini.

Un livello generalizzato di violenza, attitudinale più che fisica in senso stretto, che non conosce confini.

Infatti il “problema” in oggetto non è tanto la “violenza sulle donne”, che resta una pur drammatica “punta di iceberg”, quanto più la violenza tout court.

Ascoltateli e guardateli quando escono dalla cosiddetta “scuola”: urla, bestemmie, compiacenza del proprio degrado, gara a chi la spara più blasfema o la fa più grossa.

Zero estetica, merda a palate.

Nessuna tensione verso il Bello (che è non di rado Buono), nessuna curiosità per la Vita e le sue infinite ramificazioni, sfide, possibilità, gratificazioni.

Un orizzonte aberrante che non va oltre il soddisfacimento immediato di ogni estemporanea pulsione.

Chi non si adegua, come è successo a giovanissimi miei collaboratori ed amici sinceri, viene brutalizzato, magari solo perché diligente, perché rifiuta la logica squadrista del branco, perché rifiuta di drogarsi in compagnia o di assalire passanti inermi durante le ore notturne (sport assai diffuso, ad esempio, nella sedicente “capitale economica” della Nazione): in una parola perché ha delle prospettive.

Viviamo nel Paese ove il fratello di Sarah Scazzi tentò di commercializzare un “calendario” per “ricordare” la Sorella assassinata.

Mentre con abominevole nonchalance la di lei assassina chiedeva al giornalista di turno: “Te quanto fai di share”?

Viviamo in un Paese ove qualche anno fa tre baldracche infradiciottenni massacrarono a morte Suor Maria Laura Mainetti per il gusto di uccidere una Suora (Patriarcato anche qui, imbecilli?), per poi festeggiare l’avvenuto omicidio con una robusta sbronza in compagnia.

Viviamo in un Paese ove torme di imbecilli conclamati impestano i “social network” con strepitii di circostanza la cui unica funzione è peggio che masturbatoria: non vedono l’ora di mostrare a loro stessi quanto sono bravi a “indignarsi”.

Viviamo in un Paese, ribadisco, ove i suddetti avvertono come naturale, anzi, doveroso, applaudire di fronte ad un feretro.

Provate a pensare se solo qualche anno fa qualcuno si fosse permesso di fare altrettanto di fronte alla bara di un parente: sareste ancora in guardina per lesioni gravissime o tentato omicidio. E vi capirei e approverei senza scrupolo alcuno.

Ora, il sottoscritto sa, con certezza assoluta, che tale debordante e degradante violenza origini da una specifica “cultura”: su questo non ho dubbio alcuno.

Una “cultura” che col Patriarcato (maiuscola mia) non c’entra assolutamente un cazzo.

Ne è, anzi, antitesi piena e ributtante.

Le linee guida di tale “cultura” sono sempre le stesse, da decenni.

Le sue coordinate, la sua liturgia, i suoi sacerdoti sono noti, conosciuti, evidenti.

Spegnete per un istante lo “switch” dell’indignazione a comando e, per Dio, ragionate, possibilmente in autonomia.

Chiedetevi chi da anni pontifica sul “diritto al rischio”

Sul “diritto all’uso ricreativo delle sostanze psicotrope”.

Sul “diritto all’affettività ed alla sessualità”.

Indovinate chi è stato a demolire il nostro apparato scolastico fino a renderlo un parcheggio per disadattati completamente inutile a qualsivoglia Formazione ma tanto comodo per “genitori” i quali meno vedono i Figli più contenti sono.

Ascoltate, che so, un Bonaccini a caso che auspica l’estensione dell’obbligo scolastico dagli zero ai tre anni, perché nella testa di cazzo di certuni “amministratori” solo lo Stato è in grado di “educare” le nuove generazioni: la Famiglia è un noioso ostacolo da aggirare per formare “adulti consapevoli”.

Pensate alla costante menata di torrone sulla mancanza di “asili nido”, come se il problema educativo fosse concentrato esclusivamente sulle esigenze di predetti “genitori”, senza in nulla tener conto di quelle del Bambino, il quale DEVE “socializzare” da subito, anche se sta ancora nella culla.

Pensate a chi redige oggi i programmi scolastici, cercando di espungere fino alla desertificazione qualunque riferimento all’Eroismo, alla Gloria, alla Civiltà Medievale, alla Religione, alla Virilità, all’Oltre ed alla Metafisica.

Censori in servizio permanente ed effettivo che, “per il vostro bene” tentano, usando forbicette spuntate, di riscrivere la Storia e far crescere i nostri Virgulti completamente privi di radici, di apparato critico, di nerbo.

Lascio a voi la missione di individuarne nomi, cognomi, carica e stipendio.

E, naturalmente, di mandarli a fare in culo con estremo pregiudizio.

Dixi.

Sfascismo scolastico doloso e colpevole, ovvero: la Testa del Serpente

 

Francesco Natale

 

E’ inutile: uno vuol starsene sereno e tranquillo a macinare sedicesimi sulla Stratocaster davanti all’inflessibile metronomo ma compie l’errore madornale, dovuto a diuturna abitudine quasi suicida, di accendere il monoscopio su “La7” e di beccarsi la Fedeli, vicepresidente del Senato, che macina cazzate sulla Scuola.

La migliore di sempre, sulla quale colei non vanta tuttavia copyright: “Dobbiamo (dobbiamo?!?) fare si che l’insegnamento si adegui alle nuove discipline indispensabili per formare i giovani di oggi”.

Ora, cazzo e porca puttana, diventiamo empiricamente fenomenologici per qualche istante e fermiamo a casaccio qualche bambino di 7/8 anni per strada.

Verifichiamo quindi qual è il suo livello di preparazione informatica.

Con ogni probabilità risulterà infinitamente superiore a quello del mio venerabile Padre il quale, bontà sua, una laurea in ingegneria elettrotecnica nel ’67 o giù di lì l’ha pure conseguita e di impiantistica elettrica ed elettronica si è occupato per buona parte della sua luminosa carriera.

Variamo il campo di indagine: interrogate un covenant di 11/12enni su contraccezione, sesso orale, “glory hole”, Sasha Gray, MILF, DP, “rainbow party”.

Dopo aver ampiamente vomitato anche quel panettone che vi stava sullo stomaco dal 1988 e aver rivalutato i correzionali di risorgimentale memoria vi stupirete vieppiù.

Eppure queste dovrebbero, anzi DEVONO essere, le scintillanti linee guida per l’aggiornamento della didattica.

Un dispendio potenzialmente enorme di risorse per “spiegare” ai nostri virgulti ciò che essi già perfettamente conoscono.

Ovvero: una cazzata epocale.

Ma, ATTENZIONE, una cazzata dolosa, tutt’altro che incolpevole, anzi pervicacemente voluta, fertilizzata, amorevolmente coltivata.

La ragione è presto spiegata: la demolizione sistematica del nostro apparato scolastico, con particolare riferimento al Liceo ma non solo, è stata ed è perfettamente funzionale alla produzione ed allo stockaggio di materiale umano culturalmente infimo e, in quanto tale, adeguatissimo a dare polpa e corpo ad un “nuovo” modello sociale. Un modello sociale liquido, fluido, disgregato e disgregante, sradicato e pertanto privo di prospettive reali. Un Nulla gassoso e fetido pronto a riempire di volta in volta il “vaso” (di Pandora. Comunque e sempre di Pandora) che il demiurgo del caso imporrà, però attenzione, PROPONENDOLO “democraticamente”. Automi di rarissima beceraggine autoconvinti di essere liberi e liberati. E, difatti, tutti infatuati del nuovo feticcio totemico indispensabile a bilanciare e a rendere così mortalmente efficace questo nuovo Moloch divoratore di giovani discenti: l’infame “meritocrazia”.

Scendiamo più nel dettaglio.

A partire dall’abominevole riforma Berlinguer abbiamo intrapreso una spirale distruttiva sviluppatasi in progressione geometrica con le successive riforme Moratti e Gelmini.

Berlinguer, che da buon comunista aveva ovviamente affrontato severissimi studi tradizionali, aveva capito perfettamente che il Liceo rappresentava la palestra formativa delle future classi dirigenti.

La ragion di partito coniugata a non poca sua frenesia demiurgica fu il principale motore di quella sciagurata riforma: aggressione sistematica perpetrata ai danni di quella medesima scuola che tutti i compagni “evoluti” avevano frequentato.

Dalle sottigliezze dei test a crocette per la valutazione dei docenti (si: non sono un invenzione d’epoca renziana) fino ad aberranti “sperimentazioni” in base alle quali, ad esempio, in taluni sezioni dei Licei Classici il Greco era oggetto di disamina scritta (solo scritta) nel primo quadrimestre ed orale (solo orale) nel secondo.

Le riforme successive, piegate a novanta di fronte al mantra/slogan berlusconiano delle tre “i”, Internet, Informatica, Inglese, hanno prodotto danni mostruosi e imperdonabili sia alla classe docente che a quella discente.

Anche qua, demiurghi al lavoro. I quali essendo cresciuti col mito dell’azienda, del management, della “borghesia illuminata”, del marketing, dell’acronismo di maniera germinale di una pessima “new economy” di là da venire, paternalisti come solo i “cummenda” meneghini muniti magari di triplo cognome sanno essere nei confronti del Popolo, che in realtà hanno disprezzato e disprezzano in somma misura, si sono sentiti investiti di una sacra missione, benedetta dal parvenù di Arcore, ovvero risistemare LORO quelle due o tremila cose che, sempre a giudizio LORO, nella scuola non andavano mica bene.

Produttività e azienda. Mondo del lavoro e azienda. Azienda e azienda. Stocazzo e azienda.

Abrogate le valutazioni numeriche poiché “vecchie”, introdotte radiose perifrasi quali la “quasi sufficienza” che ancora oggi non si sa che cazzo voglia dire, espunto il Latino da taluni Licei (Liceo Scientifico Tecnologico: uno scempio cacofonico per indicare l’ennesima fabbrica di geni incompresi), introdotti seminari scuola-azienda (si, DI NUOVO quella nefasta parola) per la maggior parte MAI avviati (e per fortuna…), alunni che diventano “utenti”, Preside che diviene “dirigente scolastico”, Programma che diventa “POF”, termine giustamente onomatopeico per indicare una cagata pazzesca.

E gli istituti professionali, una volta non necessariamente lager-parcheggio per soggetti problematici ma anzi svolgenti una notevole funzione sociale? Dimenticati e abbandonati a loro stessi confidando nella loro autodemolizione: obiettivo centrato, ca va sans dire. Del resto ce l’avreste mai vista una Moratti od una Gelmini a far visita all’ITIS di Sestri Levante o all’IPSIA di Caserta? No, vero? Ci mancherebbe: la morchia dei tornii le avrebbe potuto sporcare uno dei tre cognomi…

Ma qui non stiamo a difendere romanticamente “la bella scuola di una volta” nella quale fioccavano insufficienze e mazzate come la neve natalizia a Cortina.

La “modernizzazione” della Scuola ha fallito NON perché non sia riuscita bene e compiutamente.

Ha fallito esattamente per la ragione opposta: è riuscita “bene” e “compiutamente” secondo quanto fu VOLONTARIAMENTE stabilito da una classe politica pericolosa e liberticida prima e totalmente insipiente, supponente, tronfia, “nekulturnj”, per dirla alla russa, dopo.

Fatto sta che l”obiettivo è stato conseguito con pieno successo

Perché la prima e più eccellente vittima di questo stupro premeditato ai danni della nostra società intera è stato l’apparato critico.

Ovvero quello strumento straordinario, stratificato, modulabile che consentiva allo scolaro di imparare gradualmente a leggere ed interpretare la Realtà.

Le nozioni erano il seme (indispensabile), da cui germogliava, attraverso quel rapporto straordinario e spesso conflittuale tra insegnante ed alunno, l’apparato critico.

Grazie al quale si acquisiva il senso, talvolta doloroso, della Libertà.

Libertà di imparare AUTONOMAMENTE ad utilizzare un computer o ad apprendere una lingua straniera senza necessità di “corsi”, “seminari”, “stage” (parola veramente da BANDIRE). Libertà di sfogliare un quotidiano e di capire almeno il 50% di ciò che vi era sopra riportato. Libertà di intraprendere un percorso di studi universitario NON necessariamente interdipendente dalla scuola superiore frequentata. Libertà consistente nella capacità di filtrare i contenuti: poter guardare il TG4 senza essere buggerati da Emilio Fede o leggere Il Fatto Quotidiano facendo debita tara sulle inclinazioni persecutorie e persecutive di Travaglio.

Apparato critico, insomma, che era il più straordinario strumento di formazione e, soprattutto, di autodifesa che il “giovane” aveva a disposizione.

Oggi ci stupiamo nell’apprendere che ogni due per tre valenti tredicenni si accoltellano nei cortili scolastici, che stuprano coetanee, molestano insegnanti giovani e ben carrozzate, filmano pompini nei cessi o danno fuoco a un senza tetto “per vedere l’effetto che fa”.

A parte l’innaturale regressione del materiale umano e l’oggettivo scollamento del tessuto sociale, nel quale imperversano i nostrani “ninos de rua”, figli senza Padre e/o senza Madre ma comunque benestanti al contrario degli omonimi brasiliani, è stata proprio la demolizione dolosa dell’apparato scolastico a fare proliferare a dismisura fenomeni ancora poco tempo fa inauditi.

Alla scuola del Coraggio, quella che pestava come la canapa, ti spaccava le reni a suon di versi di Archiloco da mandare a memoria, a botte di parafrasi dantesca, perennemente sottoposti a pioggia incessante di versioni di Tacito, Livio, Seneca, abbiamo sostituito VOLONTARIAMENTE la scuola della vigliaccheria. Piena, totale, inescusabile.

Oggi cerchiamo di blandire il “giovane” offrendogli cose che egli già purtroppo possiede: pretendiamo di educarlo ritualisticamente all’uso di macchine che, avendo iPad e smartphone sostituito Masters e Big Jim, già conosce meglio di quell’imbecille lontanamente imparentato se non per gameti che glieli ha poggiati con indifferenza nella culla. Pretendiamo paternalisticamente (e massonicamente, ovvio) di “educarlo” ad una sessualità che colui e colei già praticano magari dai 10/11 anni. E senza aver mai letto una riga di Plauto, Marziale o dell’Aretino. Ovviamente siamo in primissima linea quando si tratta di levare Crocifissi, abolire Presepi, bruciare alberi di Natale, spaccare uova di Pasqua. Un novello rogo dei libri nazista.

Ma al cosiddetto “giovane” badiamo bene di non offrire l’unica cosa di cui ha realmente bisogno e che la Scuola di una volta, con la sua severità invece offriva: una prospettiva ALTRA. Una prospettiva solida, radicata, efficace perché ha resistito alla prova dei millenni.

E questa è, senza dubbio alcuno, la Testa del Serpente: quella che andrebbe schiacciata con estremo pregiudizio per impedirgli di mordere ed avvelenare.

Il disastro sociale cui stiamo assistendo narcotizzati così come l’avvento di un nuovo classismo (i ricchi e ricchissimi ancora si possono avvalere di prestigiosi ed arcaici collegi con regole da Gulag. Poi votano Vendola, M5S e Forza Italia, ok, ma al benessere futuro della prole ci pensano. Eccome) originano entrambi da qui: dallo strame che abbiamo fatto della nostra istituzione scolastica.

Perché dopo la morte dell’apparato critico, per il quale sarebbe almeno d’uopo trovare adeguata e dignitosa sepoltura, c’è stata una seconda vittima incolpevole: l’Estetica.

L’educazione al Bello. Che in quanto tale è anche Buono. E allora tanto vale consumarsi di seghe su “youporn” piuttosto che ascoltare le nenie di quel grigio burocrate, di quell’apparatcik spento ed asfittico che ciancia di “costituzione” e “solidarietà” dietro una cattedra. In assenza di qualsivoglia guida, tutto è indifferente. Soprattutto se a portata di mano.

Ora, fatti salvi quei pochi pasdaran della didattica, che ancora grazie a Dio ci sono, si fanno venire un fegato grosso come quello di Jack Nicholson e sono ovviamente mal visti dal Ministero in quanto non allineati né allineabili, i quali ancora si fanno un mazzo di culo quadro per educare al Bello la masnada di picari che si ritrovano in aula, mi volete dire come cazzo fa un insegnante medio, già magari vittima di orribili complessi di inferiorità, di pessime letture, di stipendio da fame,  di mimetismo forzoso e coatto di fronte alla “istituzione” che sotto sotto lo disprezza, a parlar di Estetica quando è vessato da circolari ministeriali su integrazione, discriminazione, gender, sessualità, solidarietà, partecipazione, minoranze, multiculturalismo, laicità, darwinismo, film coi gladiatori, corsi d’aggiornamento obbligatori sulla numismatica e lo shiatsu, femminicidio, bullismo, omofania, conferenza di Saviano per l’assemblea d’istituto, ermeneutica della “prof” Litizzetto? Non può, vero?

Ovvio: perché anziché di questo immane cumulo di merda inadatto persino a concimare un campo di ortiche dovrebbe occuparsi di ben altra cosa. Ovvero, semplicemente, insegnare.

 

Ad maiora

 

 

 

 

 

Adolescenza: un percorso per l’autonomia tra ostacoli e soluzioni creative

Lucia Massolo

 

“Che dire delle differenze che ci portiamo dentro?  Dello straordinario coacervo di colori, voci, razze, lingue che convivono dentro di noi? Il nostro sentirci così uguali e così diversi.. e da chi poi? Le differenze ci fanno paura, abbiamo fretta di annullarle. Ed ecco che in una sorta di delirio “pseudo democratico” ci diciamo che i figli sono tutti uguali, che la normalità non esiste. In nome dell’integrazione, o meglio, dell’inclusione, come oggi si dice, ci accaniamo verso una continua ricerca dell’annullamento delle differenze.”

Ho trovato queste parole in un libro, e mi hanno colpito perché mi sembrava raccontassero molto bene quello che è stato ed è il mio percorso di crescita. Spesso si pensa e ci si riferisce all’autonomia di una persona disabile come al “poter fare quello che fanno gli altri”, ma col tempo mi è stato chiaro che quella non poteva essere la mia strada. Forse ho iniziato a capirlo quando alle medie ho avuto per la prima volta la possibilità di farmi confezionare un paio di scarpe ortopediche su misura (potendone scegliere quindi tessuti e colori), una grande opportunità, quasi un sogno, per una ragazzina di dodici anni costretta a portare sempre lo stesso identico modello in ogni sua (oltretutto limitata) variante di colore, da quasi dieci anni. Purtroppo ho sprecato quell’occasione, tentando malamente di copiare un paio di scarpe che invidiavo molto a una mia compagna di scuola, ma che erano ben lontane dall’essere conciliabili con le caratteristiche delle scarpe ortopediche.. il risultato finale è stato orrendo, ma quel giorno mi sono portata a casa un messaggio importante: non potrò mai essere “come gli altri”, ma forse vale la pena iniziare a capire “chi sono io”.

Grazie a questo desiderio ho scoperto piano piano le mie  passioni come il canto, l’andare ai concerti rock, la recitazione, che ho portato avanti negli anni. Per me il concetto di autonomia all’epoca era semplicemente “avere gli strumenti per fare ciò che mi piace e mi interessa”, scale e altre barriere erano un problema relativo perché c’era sempre qualche amico disposto a aiutarmi o a prendermi in braccio in caso di necessità. Paradossalmente mi scontro con le barriere architettoniche molto più adesso, che mi sposto praticamente sempre da sola, grazie a una maggiore autonomia nel cammino e all’avere nel frattempo preso la patente, rispetto ad allora, quando c’era sempre per forza di cose qualcuno che mi accompagnasse.

Benché io sia consapevole dell’enorme fortuna che ho avuto nel trovare amici sempre disposti ad aiutarmi e genitori disponibili nell’accompagnarmi,  credo che il più grande “furto” della mia adolescenza sia stato quello dell’essere privata della possibilità di decidere completamente da sola quello che volevo fare e quando farlo. Nella mia città infatti quasi nessun autobus è accessibile, e non c’è nessuna forma di supporto per gli spostamenti in autonomia, come ad esempio i buoni per i taxi.

Questo vuol dire dover essere sempre accompagnata in ogni posto, vuol dire rinunciare quasi del tutto alla propria privacy, perché i tuoi genitori sapranno più o meno sempre dove sei e con chi. Significa non avere la libertà di scegliere per sé in base ai desideri o alle voglie del momento, perché la priorità non è “cosa voglio fare”, ma “c’è qualcuno che possa accompagnarmi?”. Sono passati solo pochi anni, ma guardando indietro e ripensando all’organizzazione minuziosa che richiedeva ogni uscita mi sembra impossibile. Ancora oggi mi capita di camminare da sola per le vie del centro e fermarmi, stupita di aver deciso io di essere lì in quel momento e di avere la libertà di scegliere dove andare e quando rientrare a casa, senza dover rendere conto a nessuno.

L’adolescenza è il momento in cui si scopre davvero chi si e cosa si vuol diventare: farlo quando la tua vita è legata a filo doppio a quella degli altri può essere molto più difficile.

Per questo mi sono sempre battuta affinché la libertà decisionale non fosse sempre all’ultimo posto nella lista delle priorità nell’assistenza ai disabili, per esempio riguardo al trasporto scolastico.

Per i motivi che ho citato prima era per me impossibile andare a scuola da sola, e sono stata costretta a usufruire per quasi dieci anni del trasporto scolastico offerto dal comune. Questo ha significato per me dover sempre programmare i miei spostamenti con giorni e giorni di anticipo, non avere la libertà di fermarmi mai per un caffè con i miei compagni, dover rifiutare i loro inviti a studiare insieme, perché il tragitto concesso era sempre solo “casa-scuola” e viceversa.  All’università il problema si è rivelato ancora più assurdo, mi veniva concesso il trasporto per lezioni ed esami, ma non avevo il diritto di andare a studiare in facoltà come chiunque altro durante le sessioni di esami (restando quindi in casa da gennaio a marzo e da giugno a settembre). Sono stati necessari mesi di lotte e il farmi certificare “l’utilità didattica dello studio in gruppo” per ottenere di poter studiare in biblioteca con i miei compagni. Si parla tanto di integrazione, ma come si può pretendere che una persona riesca a vivere pienamente in un contesto se le viene impedito di frequentarlo per sei mesi all’anno?

Tralasciando le ore di ritardo che ho accumulato, aspettando il trasporto, quasi sempre sola, le umiliazioni degli autisti che piombavano in classe a prelevarmi a volte prima che finisse la lezione, con la stessa delicatezza che si avrebbe per un pacco postale, mi sono sempre ribellata all’idea che come disabile non avessi la possibilità di gestire il mio tempo, quasi che valesse meno di quello degli altri. Basterebbe molto poco per migliorare le cose, per esempio fornire un numero predefinito di trasporti al mese, da utilizzarsi quando si preferisce, o ampliare a 2-3 le possibili destinazioni, così che si possa mantenere un minimo di libertà decisionale.

Ho sempre amato andare a scuola, e non voglio sminuirne l’importanza e il valore, ma come si può pensare che l’intero universo di un ragazzo con disabilità si limiti a “scuola” e “fisioterapia”? Io sono stata molto fortunata a poter vivere anche tantissime altre dimensioni, teatro, musica, amici, concerti, ma è giusto lasciare questi aspetti così fondamentali per la crescita di chiunque alla buona volontà e disponibilità dei genitori? Capisco che sia molto più complesso guardare la totalità dell’individuo, senza fermarsi agli ambiti spesso ritenuti più rilevanti per un ragazzo con disabilità, come la riabilitazione, ma credo che questa sia l’unica modalità che permetta a un adolescente di crescere come persona.

Ritornando al concetto di inclusione che non equivale a “fare quello che fanno gli altri”, per me un esempio rilevante sono state le ore di educazione fisica, durante le quali ero costretta a stare in palestra con gli altri senza però poter fare niente. Mentre passavo quelle ore annoiata, al freddo e frustrata non mi sentivo più uguale agli altri che correvano qui e là, ma avrei voluto semplicemente poter essere esonerata e avere due ore in più per esempio per ripassare per l’interrogazione dell’ora successiva. Allo stesso modo ho sempre trovato assurdo che gli altri per un nove in pagella dovessero semplicemente mostrare la loro prestanza fisica mentre io, dato che era necessario che fossi valutata in qualche modo,  dovevo fare ricerche (per me, che non sono mai stata appassionata di sport, incredibilmente noiose) sulle regole della pallavolo, sulle dimensioni  del campo da campo da calcio e simili, per poi farmi  interrogare. All’ultimo anno di liceo, quando il prof. di educazione fisica mi ha comunicato che ero libera di scegliere l’argomento per la ricerca sulla quale mi avrebbe interrogata, ho deciso di “sfruttare” la cosa a mio favore, lasciando da parte le regole dei vari sport per esprimere per una volta quello che ero. Avendo già il desiderio di studiare medicina all’università ho voluto cercare un argomento che mi interessasse davvero e che in qualche modo fosse correlato all’ambito medico, per cui ho scelto di farla sull’eritropoietina e il suo ruolo nel doping. È stato il mio modo di affermare che io non ero solo quella ragazza seduta da sola in un angolo in palestra, ma che anche le mie passioni e i miei sogni erano parte di me.

I limiti, quello che non si può fare sono sicuramente la prima cosa che salta all’occhio in una persona con qualsivoglia difficoltà. Penso sia una cosa più che normale e che in fondo non ci sia nulla di male nell’accettare con serenità che alcune cose ci sono precluse. Tuttavia alcuni dei ricordi più belli della mia adolescenza sono legati a esperienze avvenute grazie a chi ha saputo guardare oltre questi limiti. Con la scuola non ho mai fatto una gita che non si concludesse in giornata, perché la lista delle difficoltà e delle complicazioni sembrava sempre troppo grande ed ero io stessa a rifiutare di partire. Nel contempo però ho incontrato un gruppo di amici che non si lasciavano spaventare dalle difficoltà, così, mentre a scuola i miei limiti sembravano avere l’ultima parola, con loro ho iniziato a viaggiare, fino ad arrivare in quinta superiore a decidere di fare quella che agli occhi di molti (i miei genitori compresi!) era una pazzia, andare a Barcellona per capodanno dopo due mesi da un intervento di osteotomia derotativa del femore, ancora dolorante e senza quasi riuscire ad alzarmi dalla carrozzina.

Anche la montagna, che ho sempre amato moltissimo, ma che consideravo irraggiungibile per me, è diventata contro ogni aspettativa alla mia portata, sempre grazie a qualcuno che ha voluto guardare oltre. Avevo circa sedici anni, e il mio ragazzo di allora, a seguito di un mio pianto disperato la sera prima di una gita alla quale non avrei potuto partecipare, decise che in qualche modo mi avrebbero portata su. Si è così formato un gruppetto di 5-10 ragazzi, che con molta fantasia, un paio di corde e forse un po’ di incoscienza, sono riusciti a farmi arrivare in cima.

Da allora mi avventuro attraverso percorsi sempre un po’ più difficili e vette più alte, e negli ultimi anni ho iniziato a vivere la montagna anche d’inverno, grazie ad uno snowboard adattato per le persone con disabilità. Non potrò essere mai abbastanza grata per chi ha saputo guardare a me prima per i miei desideri che per le mie difficoltà, e mi ha portato dove io stessa mai avrei neanche immaginato di arrivare.

Quasi due anni fa con alcuni amici e compagni di università abbiamo voluto portare nell’atrio della facoltà di medicina una mostra riguardo la qualità della vita e la sua complessa valutazione. Uno dei pannelli riportava scritto:

“Il problema della vita è conoscerne il senso, ciò per cui vale la pena vivere. Solo l’esperienza permette l’incontro con la novità. Lo sguardo e non il ragionamento diventano la modalità di conoscenza. La relazione e non l’esperimento. L’esperienza si rende evidente in chi la vive. La forza dell’evidenza supera quella della competenza.”

Questo è stato il punto chiave durante la mia adolescenza, lo sguardo di qualcuno che mi considerasse semplicemente una persona come tutte le altre.  Benché  con un po’ di iniziale diffidenza io stessa ho imparato piano piano a guardarmi non più per tutte le cose che non potevo fare, per le difficoltà oggettive del quotidiano, ma per i miei desideri e le possibilità che mi si aprivano davanti, grazie alle quali ho iniziato a capire chi ero e cosa volevo essere.

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Scioti A. (2009), La trama e l’ordito. Dialoghi su disabilità e dintorni, Edizioni Sestante

Marenco P., Bordin G. (2008),  Misurare il desiderio infinto? La qualità della vita, Itaca

 

NUOVI FETICCI METAFISICI: LA “RICERCA”

Francesco Natale

Ogni anno svariate migliaia di neodiplomati si cimentano nel famigerato test di ingresso per le facoltà di medicina e veterinaria. Leggere ed analizzare i risultati di tali test è procedura che genera una sorta di perversa fascinazione, come quando si resta estaticamente colpiti (per qualche istante, almeno) di fronte ad un tamponamento a catena particolarmente ben riuscito o a un disastro ferroviario di notevole magnitudine.

Ogni anno migliaia di neodiplomati, puntuali come un attacco di febbre quartana, protestano. Protestano perché dal loro punto di vista quelle 40 domande di cultura generale proprio non dovrebbero trovar albergo in un test di ammissione a medicina: loro sono lì per dimostrare quale straordinaria competenza abbiano acquisito in chimica, fisica, matematica durante le scuole superiori. Mica hanno tempo da perdere, lor signorini, con Cicerone, Platone, Lutero e Theodore Roosevelt.

Debitamente pompati e anabolizzati dalla prosopopea di familiari convinti di aver allevato cloni di Enrico Fermi, questi saltafossi occupano aule e piazze, danno la caccia a microfoni e telecamere, prospettano già a 18 anni il loro futuro da “ricercatori”, denunciano l’abuso inaudito del non aver visto riconosciuto, vezzeggiato ed incensato il loro indiscutibile genio da commissioni d’esame evidentemente non preparate, loro, a capire che è ora di finirla col nozionismo: la fantasia è tornata al potere!

Che la fantasia sia tornata prepotentemente alla ribalta non è un mistero: George Orwell avrebbe inventato (non scritto del: inventato) il Grande Fratello. Il riferimento è ovviamente al format televisivo: “1984” è solo una data che, nella nebulosa mente dei futuri “ricercatori”, è ascrivibile all’Alto Medio Evo; JFK risulta non pervenuto: nessuno o quasi, quattro anni fa, è riuscito a spuntare la casellina che lo indicava come trentacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. Piacerebbe pensare che dietro a tale diniego cognitivo si celasse in realtà una sottile e caustica satira politica, ma temo che così non sia stato; Martin Lutero è nato nel 1815, benedicendo così col suo avvento il Congresso di Vienna. Poi fu ucciso dal Papa (un Papa generico: va benissimo, no?); L’Iran sta in Polinesia: avvisate Ahmadinejad perché visto come girano discinte le levantine rischia di venirgli un coccolone; De Gaulle era un rivoluzionario. Si presume Francese, ma non è detto. Assodato che la sua Quinta Costituzione fu in effetti rivoluzionaria e che, forse, la nazione è stata azzeccata, promuoviamo sulla fiducia; Gandhi venne assassinato da Hitler (uno più o uno meno sul bodycount del dittatore tedesco in fondo non fa differenza); il Watergate era una diga: ai tempi in cui Hoover Dam era Direttore dell’FBI, è lecito supporre; Aldo Moro fu ucciso dalla ‘ndrangheta (qua in effetti andiamo sul difficile: il 1978 è un anno così sideralmente lontano nella percezione dei nostri “ricercatori” d’assalto che equivale all’alba di Sumer…); New York, ovviamente, è la capitale degli Stati Uniti: il Distretto di Columbia è una specie di sestiere popolare destinato ad accasare minoranze precipuamente afro-americane.

Di “perle” di questo genere v’è ogni anno eccelsa sovrabbondanza: una specie di Mare di Oman della beceraggine in salsa giovanilistica. Ora, il dato che emerge destando allarmante preoccupazione è il seguente: siamo di fronte a soggetti che, per la maggior parte, non solo dimostrano di essere usciti completamente immuni da almeno 13 anni di sistema scolastico, ma nemmeno si sono mai sognati di sfogliare un quotidiano in tutta la loro vita, foss’anche stato solo per farsi vento alle pudenda durante una afosa giornata estiva.

Il nefasto avvento della “soluzione finale” telematica ha sferrato poi le ultime, esiziali picconate: la progressiva sostituzione del libro (che è fatto di carta, pesa, implica il saper leggere -forse anche il saper scrivere-, richiede metodo e sacrificio prima che sia consentito di carpirne i segreti insegnamenti) con Wikipedia e viareggiate affini ha demolito la residuale capacità sinaptica (parlare qui di “capacità di analisi critica” della Realtà equivarrebbe a peccare di un romanticismo così naive da risultare stucchevole…) dei nostri futuri professori: tutto, subito, sempre.

Una modalità di fruizione che non getta alcun seme: sterile come il deserto.

Togliete loro l’iPad e si spegneranno come automi con le batterie scariche.

Ma, viene spontaneo chiedersi, da quale specialissima struttura di formazione sono usciti questi neo-barbari, la cui provvista di smodata superbia e pari solo alla loro inaudita insipienza? Semplice: dalla scuola. O, meglio, da quel che ne resta. I mali che affliggono l’istituzione scolastica sono noti, ma è bene qui ribadirli: l’abolizione progressiva degli esami, un momento di formazione e di confronto reale serio, a partire da quelli di 3a e 5a elementare è stata deleteria. L’aver permesso alla psicopedagia d’accatto di entrare trionfante nell’edificio scolastico ha prodotto danni a catena peggio di una pestilenza: la nuova vulgata del “bambino-che-va-capito” ha scalzato completamente l’essenza del ruolo della scuola, ovvero il “bambino-che-va-formato”. L’aver sostituito i “programmi scolastici” con i famigerati POF (piano dell’offerta formativa) è stato un colpo “magistrale”: ogni infamia, infatti, nasce prima come modifica linguistica, come mutamento genetico indotto della parola e, guardate che meraviglia! La “formazione”, unico oggetto sociale della Scuola con la “S” maiuscola”, è divenuta una “offerta”: è il “mercato” bellezza! Nessuno ha specificato, prudentemente, che si tratta di quello del bestiame.

Sono state progressivamente bandite parole come selezione, bocciatura, pro-mozione (nel senso etimologico del termine): perché la nuova e moderna scuola non può né deve essere selettiva. Il Preside, titolo troppo risorgimentale con ogni evidenza, è divenuto dirigente scolastico, ovvero ha cessato di essere quell’entità metafisica e bastarda la cui sola menzione faceva tremare come foglie secche anche gli scavezzacollo più scalmanati: è diventato un burocrate europeisticamente corretto che si occupa fondamentalmente di pubblicizzare la suddetta “offerta formativa”, di fare attività sindacale e, soprattutto, di far girare, simulando entusiasmo forse degno di miglior causa, le circolari che il Ministero gli impone (tirare a campare è un’arte, del resto) su “integrazione”, “problematiche di genere”, “parità del diritto allo studio”, “educazione sessuale”, “La Resistenza” (quella è rimasta: hanno fatto strame di tutto il resto ma il ciarpame resistenziale non si tocca!). E gli insegnanti? Ridotti a parcheggiatori più o meno abusivi, vista la precarietà pressoché assoluta della loro situazione e gli stipendi ridicoli che percepiscono: vessati come sono dal Ministero che impone loro oneri kafkiani i quali nulla hanno a che vedere con l’attività realmente didattica, i più tirano cinicamente ad arrivare a fine mese abbandonandosi quando credono di non essere ascoltati a facezie escatologiche, i pochi che credono all’insegnamento come vocazione e missione in trincea si candidano a crepare di infarto o mal di fegato prima dei quarant’anni.

Debitamente “coadiuvati” nella loro corsa verso il precipizio da famiglie che, come dicevamo poco sopra, sono fermamente convinte della genialità indiscussa di quel figlio del quale, fondamentalmente, non sanno nulla di nulla.

Ora, al di là dei moti nostalgici che pur comprensibili sono destinati a restare lettera morta se non sviluppati proiettivamente verso il futuro, il problema è serio ed è grave. Perché una scuola, e ormai una università, che hanno bandito completamente il concetto stesso di selezione producono come risultato uno dei peggiori mattatoi sociali, un vero e proprio assomoir, che sia possibile immaginare: demandano completamente ogni forma di selezione al mondo del lavoro, senza passaggi intermedi. Mondo del lavoro che, guarda caso, delle psicocazzate da pedagogia d’avanguardia se ne frega altamente. Un colossale tritacarne di fronte alle cui mandibole pochi, pochissimi hanno sviluppato per capacità personale, per fortuna smodata o per raccomandazione adeguati strumenti di difesa.

Questo apre la strada a due ulteriori considerazioni, distinte ma sinergicamente collegate. In primo luogo il disastro educativo e il conseguente senso di profondissima inadeguatezza che ne consegue fanno proliferare a dismisura quella particolare forma di mitologia autonoma che va sotto il nome di dissonanza cognitiva, come teorizzata da Festinger: siccome la Realtà che vedo e percepisco non mi piace e mi terrorizza me ne costruisco un’altra maggiormente rispondente alle mie aspettative e la sostituisco a quella vera, originaria. Si comincia fin da piccoli: un brutto voto è sempre colpa di fattori altri, contingenti, diversi dal “me”. Solitamente è colpa dell’insegnante che non capisce nulla. Un esame fallito all’Università è colpa del solito assistente carogna. Un test di ingresso non passato dipende dalla inopportunità delle domande, non dalla completa inadeguatezza delle risposte. Un colloquio di lavoro andato in vacca dipende dai “soliti raccomandati” che rubano il posto a chi lo merita davvero.

E, per curiosità, domani, un appendicectomia o la somministrazione di un anestetico risoltesi con un bel funerale in pompa magna, di chi saranno colpa?

Il codice dissonante ha schemi e stilemi linguistici precisi ed inequivocabili, i quali sono ormai entrati nel nostro vissuto quotidiano senza che quasi ce ne accorgessimo: “eccellenza”, “ricerca”, “fuga di cervelli”, “raccomandati”, “raccomandanti” e, soprattutto, il migliore in assoluto, ovvero “meritocrazia”. Mantra e slogan che ripetiamo come pappagalli robotici ogni giorno: come se la semplice adesione a questo nuovo, aberrante codice linguistico ci rendesse automaticamente più intelligenti ed interessanti

. Forse è il caso di cominciare a sfatare qualche mito, anche a rischio di far inorridire e piagnucolare impotente qualche animuccia bella: l’Italia, per cominciare, è sempre stato un paese profondamente meritocratico. Fatte salve le fisiologiche eccezioni, poiché il mondo non è perfetto (pare una ovvietà: sapeste quanti sono convinti del contrario oggi…), chi davvero è risultato eccellente nel proprio ambito di studio prima e di lavoro poi ha sempre acquisito fama, ruolo sociale ovvero status, retribuzione e prebende.

Siamo riusciti a generare in anni non sospetti classi dirigenti di assoluto livello, una numerorissima classe media dotata di eccellente formazione e classi popolari alle quale l’alfabetizzazione di massa portò crescita e benefici inimmaginabili nel vuoto pneumatico odierno.

Non solo: questo miracoloso circuito virtuoso garantiva la possibilità di autopromuoversi, ovvero esisteva osmosi tra le diverse classi sociali. Questa è l’unica forma di “meritocrazia” ipotizzabile: perché ha dimostrato di funzionare in concreto, cioè non è mai stata un costrutto artificiale progettato a tavolino e messo a punto in laboratorio. Ovvero la “meritocrazia per legge”: quella che la nuova, soffocante ideologia europeista, pesantemente classista, vorrebbe imporci.

La catastrofe è iniziata poco più di vent’anni fa: “new economy”, “outsourcing”, “società di selezione”, “società di rating”, “certificazioni ISO9000 e ISO9001”, “web economy” e tutto il catafalco di acronimi che hanno caratterizzato il mito del nuovo management. Ebbri di esterofilia come eravamo ai tempi, gonfi di benessere come mongolfiere e pronti a salutare come liberatori i carnefici di “mani pulite” abbiamo abbassato la guardia: i risultati prodotti dalla “nuova frontiera” li vediamo nella loro interezza solo oggi.

La classe media pressoché scomparsa, il tessuto produttivo del paese strappato a brandelli, un nuovo insospettabile boom della tossicodipendenza, l’insurgency di gravissimi problemi di sicurezza e ordine pubblico, lo sfacelo dell’arco politico nel suo insieme. E in mezzo a questo battage d’artiglieria telecomandato da Bruxelles, da Berlino, da New York, si agitano come scimmie impazzite i nostri prodi “ricercatori” in erba: completamente ignari e potentemente narcotizzati da falsi miti, false nozioni, falsi profeti i quali, ovviamente, strepitano di “meritocrazia”.

La seconda considerazione, strettamente connessa alla prima, è la seguente: che cosa rende realmente civile un paese dal punto di vista formativo/didattico e, quindi, lavorativo? Il solito caso clinico, che una volta aveva il buon gusto di starsene al Bar Sport, e solo colà si limitava a filosofeggiare, mentre oggi spesso e volentieri svolge il ruolo di Senatore, Deputato o Ministro, vi risponderà che “civile” è il paese che premia l’eccellenza.

Una cazzata di proporzioni cosmiche: l’ennesimo mito assiomatico, ovvero che non necessità di ulteriori pezze giustificative.

E’ così e basta. E’ così perché lo dicono tutti. E’ così perché ce lo chiede l’Europa. Un’affermazione di massima che prescinde completamente dal dato della Realtà e, in quanto tale, è assolutamente falsa, per non dire delirante. Il paese realmente civile è, casomai, quello che risulta in grado di assorbire tutte o quasi le “giacenze”, ovvero il paese il cui sistema, il cui tessuto sociale e produttivo, il cui welfare sono in grado di creare le condizioni (non necessariamente di “garantire”) affinché tutti i consociati possano trovare una adeguata collocazione sociale e lavorativa.

Facendo un esempio ispirato alla fenomenologia, pensate ad un qualunque ateneo universitario, tipo una facoltà di giurisprudenza: vi risulterebbe “civile” un paese che garantisse possibilità di collocazione solo ed esclusivamente a quell’esigua, microscopica percentuale di studenti che si laurea in cinque anni con 110 e lode? Direi proprio di no.

Ora, coloro che per indubbia capacità personale, metodo e spirito di sacrificio conseguiranno un simile, brillante risultato non avranno alcun problema (o ne avranno molti meno comunque) a trovare lavoro con tutto quel che ne segue (comprare casa, costruire una famiglia, far studiare i figli). Il problema che esige una riconfigurazione quasi palingenetica del nostro assetto politico e sociale è un altro: ovvero ricreare quello specialissimo tipo di fermenti generativi che stanno alla base del rilancio economico, della ricostruzione del nostro disperato e disgregato mercato interno (da sempre motore primario del sistema Italia) che consenta l’assorbimento nel mondo del lavoro non solo degli eccellenti (i quali sono già assorbiti), ma anche dei “molto bravi”, dei “bravini” e, abbiamo finalmente il coraggio di dirlo, anche dei “mediocri”, che sono la maggioranza e che, comunque, possono sempre migliorare o, a fronte di una pur moderata stabilità lavorativa, scoprirsi davvero eccellenti per qualità non immediatamente appetibili per il mondo del lavoro.

Non solo: tutte le categorie summenzionate spendono e consumano.

Un paese che davvero premiasse solo “l’eccellenza” finirebbe come il Paraguay nel volgere di poche settimane: perché non è ipotizzabile che solo ed esclusivamente un 1,5% (e sto sull’abbondante) della popolazione attiva regga autonomamente il suddetto mercato interno. Ergo: di cosa stiamo parlando? Ah! Dimenticavo: di “meritocrazia”. Esticazzi…

Ad maiora