Adolescenza: un percorso per l’autonomia tra ostacoli e soluzioni creative

Lucia Massolo

 

“Che dire delle differenze che ci portiamo dentro?  Dello straordinario coacervo di colori, voci, razze, lingue che convivono dentro di noi? Il nostro sentirci così uguali e così diversi.. e da chi poi? Le differenze ci fanno paura, abbiamo fretta di annullarle. Ed ecco che in una sorta di delirio “pseudo democratico” ci diciamo che i figli sono tutti uguali, che la normalità non esiste. In nome dell’integrazione, o meglio, dell’inclusione, come oggi si dice, ci accaniamo verso una continua ricerca dell’annullamento delle differenze.”

Ho trovato queste parole in un libro, e mi hanno colpito perché mi sembrava raccontassero molto bene quello che è stato ed è il mio percorso di crescita. Spesso si pensa e ci si riferisce all’autonomia di una persona disabile come al “poter fare quello che fanno gli altri”, ma col tempo mi è stato chiaro che quella non poteva essere la mia strada. Forse ho iniziato a capirlo quando alle medie ho avuto per la prima volta la possibilità di farmi confezionare un paio di scarpe ortopediche su misura (potendone scegliere quindi tessuti e colori), una grande opportunità, quasi un sogno, per una ragazzina di dodici anni costretta a portare sempre lo stesso identico modello in ogni sua (oltretutto limitata) variante di colore, da quasi dieci anni. Purtroppo ho sprecato quell’occasione, tentando malamente di copiare un paio di scarpe che invidiavo molto a una mia compagna di scuola, ma che erano ben lontane dall’essere conciliabili con le caratteristiche delle scarpe ortopediche.. il risultato finale è stato orrendo, ma quel giorno mi sono portata a casa un messaggio importante: non potrò mai essere “come gli altri”, ma forse vale la pena iniziare a capire “chi sono io”.

Grazie a questo desiderio ho scoperto piano piano le mie  passioni come il canto, l’andare ai concerti rock, la recitazione, che ho portato avanti negli anni. Per me il concetto di autonomia all’epoca era semplicemente “avere gli strumenti per fare ciò che mi piace e mi interessa”, scale e altre barriere erano un problema relativo perché c’era sempre qualche amico disposto a aiutarmi o a prendermi in braccio in caso di necessità. Paradossalmente mi scontro con le barriere architettoniche molto più adesso, che mi sposto praticamente sempre da sola, grazie a una maggiore autonomia nel cammino e all’avere nel frattempo preso la patente, rispetto ad allora, quando c’era sempre per forza di cose qualcuno che mi accompagnasse.

Benché io sia consapevole dell’enorme fortuna che ho avuto nel trovare amici sempre disposti ad aiutarmi e genitori disponibili nell’accompagnarmi,  credo che il più grande “furto” della mia adolescenza sia stato quello dell’essere privata della possibilità di decidere completamente da sola quello che volevo fare e quando farlo. Nella mia città infatti quasi nessun autobus è accessibile, e non c’è nessuna forma di supporto per gli spostamenti in autonomia, come ad esempio i buoni per i taxi.

Questo vuol dire dover essere sempre accompagnata in ogni posto, vuol dire rinunciare quasi del tutto alla propria privacy, perché i tuoi genitori sapranno più o meno sempre dove sei e con chi. Significa non avere la libertà di scegliere per sé in base ai desideri o alle voglie del momento, perché la priorità non è “cosa voglio fare”, ma “c’è qualcuno che possa accompagnarmi?”. Sono passati solo pochi anni, ma guardando indietro e ripensando all’organizzazione minuziosa che richiedeva ogni uscita mi sembra impossibile. Ancora oggi mi capita di camminare da sola per le vie del centro e fermarmi, stupita di aver deciso io di essere lì in quel momento e di avere la libertà di scegliere dove andare e quando rientrare a casa, senza dover rendere conto a nessuno.

L’adolescenza è il momento in cui si scopre davvero chi si e cosa si vuol diventare: farlo quando la tua vita è legata a filo doppio a quella degli altri può essere molto più difficile.

Per questo mi sono sempre battuta affinché la libertà decisionale non fosse sempre all’ultimo posto nella lista delle priorità nell’assistenza ai disabili, per esempio riguardo al trasporto scolastico.

Per i motivi che ho citato prima era per me impossibile andare a scuola da sola, e sono stata costretta a usufruire per quasi dieci anni del trasporto scolastico offerto dal comune. Questo ha significato per me dover sempre programmare i miei spostamenti con giorni e giorni di anticipo, non avere la libertà di fermarmi mai per un caffè con i miei compagni, dover rifiutare i loro inviti a studiare insieme, perché il tragitto concesso era sempre solo “casa-scuola” e viceversa.  All’università il problema si è rivelato ancora più assurdo, mi veniva concesso il trasporto per lezioni ed esami, ma non avevo il diritto di andare a studiare in facoltà come chiunque altro durante le sessioni di esami (restando quindi in casa da gennaio a marzo e da giugno a settembre). Sono stati necessari mesi di lotte e il farmi certificare “l’utilità didattica dello studio in gruppo” per ottenere di poter studiare in biblioteca con i miei compagni. Si parla tanto di integrazione, ma come si può pretendere che una persona riesca a vivere pienamente in un contesto se le viene impedito di frequentarlo per sei mesi all’anno?

Tralasciando le ore di ritardo che ho accumulato, aspettando il trasporto, quasi sempre sola, le umiliazioni degli autisti che piombavano in classe a prelevarmi a volte prima che finisse la lezione, con la stessa delicatezza che si avrebbe per un pacco postale, mi sono sempre ribellata all’idea che come disabile non avessi la possibilità di gestire il mio tempo, quasi che valesse meno di quello degli altri. Basterebbe molto poco per migliorare le cose, per esempio fornire un numero predefinito di trasporti al mese, da utilizzarsi quando si preferisce, o ampliare a 2-3 le possibili destinazioni, così che si possa mantenere un minimo di libertà decisionale.

Ho sempre amato andare a scuola, e non voglio sminuirne l’importanza e il valore, ma come si può pensare che l’intero universo di un ragazzo con disabilità si limiti a “scuola” e “fisioterapia”? Io sono stata molto fortunata a poter vivere anche tantissime altre dimensioni, teatro, musica, amici, concerti, ma è giusto lasciare questi aspetti così fondamentali per la crescita di chiunque alla buona volontà e disponibilità dei genitori? Capisco che sia molto più complesso guardare la totalità dell’individuo, senza fermarsi agli ambiti spesso ritenuti più rilevanti per un ragazzo con disabilità, come la riabilitazione, ma credo che questa sia l’unica modalità che permetta a un adolescente di crescere come persona.

Ritornando al concetto di inclusione che non equivale a “fare quello che fanno gli altri”, per me un esempio rilevante sono state le ore di educazione fisica, durante le quali ero costretta a stare in palestra con gli altri senza però poter fare niente. Mentre passavo quelle ore annoiata, al freddo e frustrata non mi sentivo più uguale agli altri che correvano qui e là, ma avrei voluto semplicemente poter essere esonerata e avere due ore in più per esempio per ripassare per l’interrogazione dell’ora successiva. Allo stesso modo ho sempre trovato assurdo che gli altri per un nove in pagella dovessero semplicemente mostrare la loro prestanza fisica mentre io, dato che era necessario che fossi valutata in qualche modo,  dovevo fare ricerche (per me, che non sono mai stata appassionata di sport, incredibilmente noiose) sulle regole della pallavolo, sulle dimensioni  del campo da campo da calcio e simili, per poi farmi  interrogare. All’ultimo anno di liceo, quando il prof. di educazione fisica mi ha comunicato che ero libera di scegliere l’argomento per la ricerca sulla quale mi avrebbe interrogata, ho deciso di “sfruttare” la cosa a mio favore, lasciando da parte le regole dei vari sport per esprimere per una volta quello che ero. Avendo già il desiderio di studiare medicina all’università ho voluto cercare un argomento che mi interessasse davvero e che in qualche modo fosse correlato all’ambito medico, per cui ho scelto di farla sull’eritropoietina e il suo ruolo nel doping. È stato il mio modo di affermare che io non ero solo quella ragazza seduta da sola in un angolo in palestra, ma che anche le mie passioni e i miei sogni erano parte di me.

I limiti, quello che non si può fare sono sicuramente la prima cosa che salta all’occhio in una persona con qualsivoglia difficoltà. Penso sia una cosa più che normale e che in fondo non ci sia nulla di male nell’accettare con serenità che alcune cose ci sono precluse. Tuttavia alcuni dei ricordi più belli della mia adolescenza sono legati a esperienze avvenute grazie a chi ha saputo guardare oltre questi limiti. Con la scuola non ho mai fatto una gita che non si concludesse in giornata, perché la lista delle difficoltà e delle complicazioni sembrava sempre troppo grande ed ero io stessa a rifiutare di partire. Nel contempo però ho incontrato un gruppo di amici che non si lasciavano spaventare dalle difficoltà, così, mentre a scuola i miei limiti sembravano avere l’ultima parola, con loro ho iniziato a viaggiare, fino ad arrivare in quinta superiore a decidere di fare quella che agli occhi di molti (i miei genitori compresi!) era una pazzia, andare a Barcellona per capodanno dopo due mesi da un intervento di osteotomia derotativa del femore, ancora dolorante e senza quasi riuscire ad alzarmi dalla carrozzina.

Anche la montagna, che ho sempre amato moltissimo, ma che consideravo irraggiungibile per me, è diventata contro ogni aspettativa alla mia portata, sempre grazie a qualcuno che ha voluto guardare oltre. Avevo circa sedici anni, e il mio ragazzo di allora, a seguito di un mio pianto disperato la sera prima di una gita alla quale non avrei potuto partecipare, decise che in qualche modo mi avrebbero portata su. Si è così formato un gruppetto di 5-10 ragazzi, che con molta fantasia, un paio di corde e forse un po’ di incoscienza, sono riusciti a farmi arrivare in cima.

Da allora mi avventuro attraverso percorsi sempre un po’ più difficili e vette più alte, e negli ultimi anni ho iniziato a vivere la montagna anche d’inverno, grazie ad uno snowboard adattato per le persone con disabilità. Non potrò essere mai abbastanza grata per chi ha saputo guardare a me prima per i miei desideri che per le mie difficoltà, e mi ha portato dove io stessa mai avrei neanche immaginato di arrivare.

Quasi due anni fa con alcuni amici e compagni di università abbiamo voluto portare nell’atrio della facoltà di medicina una mostra riguardo la qualità della vita e la sua complessa valutazione. Uno dei pannelli riportava scritto:

“Il problema della vita è conoscerne il senso, ciò per cui vale la pena vivere. Solo l’esperienza permette l’incontro con la novità. Lo sguardo e non il ragionamento diventano la modalità di conoscenza. La relazione e non l’esperimento. L’esperienza si rende evidente in chi la vive. La forza dell’evidenza supera quella della competenza.”

Questo è stato il punto chiave durante la mia adolescenza, lo sguardo di qualcuno che mi considerasse semplicemente una persona come tutte le altre.  Benché  con un po’ di iniziale diffidenza io stessa ho imparato piano piano a guardarmi non più per tutte le cose che non potevo fare, per le difficoltà oggettive del quotidiano, ma per i miei desideri e le possibilità che mi si aprivano davanti, grazie alle quali ho iniziato a capire chi ero e cosa volevo essere.

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

Scioti A. (2009), La trama e l’ordito. Dialoghi su disabilità e dintorni, Edizioni Sestante

Marenco P., Bordin G. (2008),  Misurare il desiderio infinto? La qualità della vita, Itaca