Perché se fossi romano voterei per Mario Adinolfi sindaco

Francesco Natale

Togliamoci subito l’incombenza rispondendo al quesito e dettagliamo a seguire la faccenda: voterei per Mario Adinolfi al Campidoglio perché è l’unico soggetto politico che ha veicolato e sta veicolando contenuti. Si: avete capito bene. NON semplici “contenitori”, ma contenuti.

Che questi contenuti (insisto nella ridondanza: confido che subliminalmente questa parola vi si imprima a caratteri di fuoco nella mente, adorate teste-di-granito…) siano o meno condivisibili è affar vostro: l’importante è che, finalmente, siano presenti e, soprattutto, tornino ad assumere il ruolo che è loro proprio, ovvero essere fulcro di qualsivoglia azione politica, foss’anche limitata ad una riunione di condominio a Borgio-Verezzi.

Se avete stomaco a sufficienza e caffettiere da 12 piene e pronte all’uso provate ad ascoltare per una decina di minuti qualsivoglia servizio televisivo dedicato alle imminenti amministrative capitoline. Lasciate perdere il leggerne sui giornali: in quel caso nemmeno l’anfetamina vi salverebbe da repentina narcolessia.

Il cosiddetto “centro-destra” parla fondamentalmente di una sola cosa: di sé stesso con sé stesso. Come del resto fa da 15 anni buoni. Una palude sconfinata ove si agitano, come protozoi nel brodo primordiale, nuove e vecchie “glorie” alla ricerca, più che legittima per carità, di uno strapuntino che dia loro una tridimensionalità politica per sempre perduta grazie ad un perdurante autolesionismo che manderebbe in solluchero De Sade. Un Bertolaso che, evidentemente dopo aver subito la rimozione chirurgica del senso del ridicolo e del discernimento, dichiara a microfoni aperti di essere “un decisionista”: dal Gianicolo all’Anagnina passando per Testaccio, Via Condotti, Nomentana, Garbatella, giù fino a zona Castelli l’eco delle scroscianti risate non si è ancora spento. E perché abbia investitura definitiva, per altro, dovrà attendere fino allo spasmo l’ultimo sondaggio damocleo della Ghisleri, anche se egli fa finta di non saperlo.

Autoreferenzialità totale.

Ma sono, ovviamente, in buona compagnia.

Giachetti pare sia stato, con ogni evidenza, morsicato dalla Serracchiani: stesse modalità espressive, stessi stilemi linguistici, stessa, identica, fumosità. Alla quale si aggiunge, per buona misura, l’attenzione estrema, maniacale, berlusconiana in termini rovesciati, nel dimostrarsi perennemente preoccupato di fronte alle telecamere.

Ha dimenticato che parlare per telegrammi con tono grave e ruga sulla fronte d’ordinanza funzionava (e non sempre) per Enrico Berlinguer debitamente coadiuvato da “suor Pasqualino” (Tonino Tatò, per chi è nato negli anni ’90).

Il simulare perenne contrizione, col viso smunto e affranto, la sparuta barba di quattro giorni, l’attitudine da “non-dormo-da-mesi-pensando-ai-destini-infausti-di-Roma” lo rendono più affine ad un manifesto anteguerra sulla crisi dell’agricoltura e seducente quanto una vecchia “carabosse” dipinta da Goya. O quanto uno straccio per pulire i vetri.

Non parla di nulla, non dice nulla, non trasmette nulla.

Blatera alla bell’e meglio i “mantra”, vendemmiati temporibus illis nella vigna del politicamente corretto da Marcolongo e Baricco (o chi per loro…). Puro contenitore, zero contenuto.

Apparenza spinta al parossismo, nessuna sostanza percepibile: roba che al massimo potrebbe convincere qualche anorgasmica scrittrice di galatei adusa a sorseggiare con mignolino alzato té allo zenzero&goji in quel di salotto Crespi.

Virginia Raggi, che pure pareva avere qualche freccia al suo arco oltre all’indubitabile avvenenza, concentra tutto su vetuste contingenze, come mille altri hanno fatto prima di lei, non ultimo il disastroso Marino: “onestà”, “trasparenza”, “stop agli sprechi”, “no a mafia-capitale”, “si alla metro C”, “dire, fare, baciare, lettera, testamento”. Ok: va bene. E i CON-TE-NU-TI politici dove stanno? Pare di sentire l’Orlando o il Ciotti di turno quando sbraitano “Noi siamo contro la mafia!”. E perché, c’è forse qualcuno che si dichiara apertamente favorevole all'”onorata società”? Tornano alla mente le famigerate “affermazioni cretine” caratterizzanti, ad esempio, l’insulsa retorica di Gianfranco Fini, ovvero quelle affermazioni le quali, qualora se ne ribaltasse il significato, produrrebbero una locuzione aberrante. Sperimentate voi: siamo favorevoli alla mafia, alla disonestà, al malaffare; faremo di tutto per non aprire la linea C della metro, per aumentare i livelli di inquinamento, per calpestare il dettato costituzionale, per diminuire i posti di lavoro. Ribaltatele a avrete bell’e pronto un discorso dell’ex vate di AN. Un cumulo di ovvietà spaventose che non significano nulla di nulla, ma spendibili in ogni stagione ed in ogni luogo, adattissime ancor oggi a suscitare il plauso di una platea di zombi festanti, magari cultisti di cazzate tipo “acqua pubblica” e “reddito di cittadinanza”.

Su Marchini sospendo giudizio: a me sta pure marginalmente simpatico, per carità, e forse quel suo piglio da “viveur” di borgata risulta pure più attraente del nulla che lo circonda. “Roma ti amo” non è neppure un bruttissimo slogan. Ma basta davvero il piglio da golfista con pettina aerodinamica “a spoiler” e il “passe-par-tout” per quasi ogni palazzo della Roma “in” per riempire di CON-TE-NU-TI un vaso vuoto? Non credo. L’aver incassato il placet di quell’edera rampicante di Alfano, per altro, non depone decisamente a suo favore.

Tralasciando il discorso riguardante la pletora di altri candidati, presenti o potenziali, l’unico discorso prettamente politico lo ha fatto e lo sta facendo Mario Adinolfi, coniugando alla sua risalente esperienza personale l’esigenza profonda, viscerale, impellente che il Popolo del Circo Massimo, una piattaforma politica trasversale “in re ipsa”, checché ne possano dire i timidi e i pavidi, ha apertamente espresso lo scorso 30 Gennaio.

Un Popolo non più capace di riconoscersi forzatamente in una classe politica che ne ha sistematicamente ignorato le istanze, dimostrandosi per altro, indipendentemente dalla “bandiera” di appartenenza, completamente avulsa dalla Realtà.

Disprezzando anzi, spesso e volentieri, il vissuto quotidiano di soggetti (innumerevoli!) sostanzialmente qualificati come rompicoglioni “divisivi”, fino a che non si tratta, ovviamente, di andar a mendicare il loro voto.

La questione non riguarda solo e tanto la “rappresentanza-dei-Cattolici-in-politica”: riguarda casomai l’unica battaglia di civiltà possibile, ovvero ricondurre la Politica al suo ruolo principe, cioè la Difesa della Vita.

Difesa della Vita che non si limita “solo” alla questione riguardante aborto ed eutanasia, ma coinvolge con nettezza cristallina ogni aspetto del nostro vivere sociale.

Difesa della Vita vuole dire aiuto concreto alla Famiglia, cellula fondativa della nostra società e, che lo si voglia o meno, pietra angolare della medesima: una pietra angolare sulla quale pressoché tutti coloro che ci hanno governato negli ultimi 20 anni hanno sistematicamente pisciato sopra, limitandosi, nel caso migliore, a lanciare sdegnosamente qualche nocciolina.

Difesa della vita vuol dire revisione del regime fiscale: perché senza pane e denaro comunque non si vive decorosamente.

Vuol dire riassestamento del mercato del lavoro non solo in termini premiali per la “solita” impresa, ma innanzitutto affinché la Maternità non sia considerata sventurata zavorra per la Donna.

Difesa della Vita vuol dire RESPONSABILIZZAZIONE del cittadino, il quale più di ogni altro conosce e, si suppone, ama il contesto in cui vive: e per tanto non può vedersi costantemente impedito nella tutela del medesimo, in termini di decoro e vivibilità, da una amministrazione perennemente assente se non quando si tratta di mettere i proverbiali bastoni tra le ruote, facendo proprio l’abominevole brocardo in base al quale “L’inefficienza pubblica non può tollerare l’efficienza privata”.

Difesa della Vita vuol dire cercare di preservare al massimo grado l’incolumità e la dignità della persona, troppo spesso cornuta e mazziata, specie in taluni contesti disagiati, sulla base di assunti “sociologici” vecchi di 50 anni secondo i quali chi delinque è comunque vittima o, al più, concorsualmente colpevole con la “società” per presunte e nebulose “responsabilità collettive”.

Vuol dire che ad ogni Diritto, perché possa vantare la “D” maiuscola, corrisponde un Dovere, altrimenti si parla di nulla.

Vuol dire pertanto ascrivere il diritto/dovere all’educazione dei Figli in primo luogo alla Famiglia, e NON all’istituzione scolastica sulla base del diktat massonico-illuminista tanto in voga, ad esempio, in Francia, per il quale è lo Stato l’entità suprema preposta all’educazione dei giovani “cittadini” e la famiglia ha un ruolo residuale, che comunque non deve mai risultare confliggente con quello del moloch statale.

Difesa della Vita vuol dire collaborazione e sinergia con i corpi intermedi, ovvero sussidiarietà: perché non è pensabile né ipotizzabile che l’amministrazione pubblica si occupi efficientemente di tutto, sempre e comunque, come vorrebbero farci credere burocrati e “riservisti” della Repubblica anagraficamente contemporanei di Tutankhamon, perennemente infatuati di costrutti di ingegneria sociale sempre più complessi, stratificati e, soprattutto, inutili quando non apertamente nocivi, ma indispensabili per il mantenimento di rendite di posizione tra le più proficue che il pubblico possa garantire, in termini di emolumenti e, ancor più, di smisurato e incontrollato potere sui Cittadini.

Difesa della vita significa riqualificazione urbanistica partendo dal primo elemento che davvero ha importanza al riguardo: l’Uomo. La Persona. La quale non ha solo “diritto” ad un loculo all’interno di quartieri dormitorio e ad una fermata d’autobus ragionevolmente limitrofa, ma soprattutto ad un contesto integrato che, nei limiti del possibile, sia a sua misura e non diventi, come troppo spesso accade, fucina di degrado sociale e morale senza precedenti, nel quale la “dimensione metafisica” dell’intimità della casa è inesistente, nel quale trovano fertilissimo terreno depressione, alienazione, straniamento, solitudine, delinqueza, vessazione.

E questi, cari miei, sono CON-TE-NU-TI.

Contenuti che può veicolare solo chi una ha percezione , forse non completa (nessuno è perfetto) ma comunque efficace, “terrigena”, umana nel senso più vero e meno lacrimevole del termine, del Reale.

Al contrario di quanti si abbandonano a proclami preconfezionati come surgelati, poiché, non fregando loro nulla di nulla, l’unica cosa che mirano a fare è non risultare “divisivi”.

Passeggiare sulle uova badando bene di rompere meno gusci possibile.

Ovvero considerare l’elettore un coglione terminale da blandire con paroline melmose, affrante o paternaliste a seconda della contingenza.

Mario se ne strafotte di essere “divisivo”, e viva Iddio: ci mette di fronte ad una scelta chiara, perché sappiamo cosa vuole, quale battaglia ha portato e sta portando avanti da anni, quanto è riuscito, coadiuvato da numerosi amici che hanno dimostrato spirito di sacrificio e abnegazione straordinari, a rimettere in discussione fenomeni ed argomenti in apparenza percepiti come “dato acquisito” non più modificabile, dimostrando che l’appeasement di Cattolici e laici, atei e miscredenti i quali tuttavia NON si riconoscono in modelli sociali profondamente contrari alla Vita vista nella sua interezza, era solo apparente.

Era fondamentalmente dovuto ad una narcosi progressiva eteroindotta, che da un lato ci ha costretto nell’angolo buio del fatalismo, dall’altro ci ha obbligato a scegliere sempre il “meno peggio”, confidando perennemente in “tempi migliori” mai destinati a manifestarsi.

Amici romani, voi che potete votate per chi, con tutte le sue pecche delle quali mai ha fatto mistero, ha dato un contributo determinante a risvegliarci dall’incubo del nulla, da un “inferno artificiale”, magari comodo e deresponsabilizzante, che risultava apparentemente senza via di uscita. Votate per chi dopo decenni di pappette&zuppe&minestre sciape, di vomitevoli frullati di perbenismo militante, ci ha fatto, pure nostro malgrado magari, riazzannare l’abbacchio dell’unica Politica possibile: quella che è fatta di Carne, di Sangue, di Spirito. Di Persone, in una parola: non di automi, non di “fenomeni sociali”, non di sagome cartonate. Persone. Semplicemente…Persone.

 

Ad Maiora.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ora vi spiego io “mafia capitale”. In quattro(mila) parole.

 

Francesco Natale

 

La Politica è una roba strana. Semplice e strana ad un tempo, meglio. In primo luogo perché non ammette la categoria del “vuoto”: quando un vuoto si crea quello spazio una volta “pieno” non viene disgregato, impachettato su sé stesso e quindi archiviato, ma sarà comunque destinato ad essere riempito da qualcosa. Solitamente, salvo rarissime eccezioni, sarà riempito da qualcosa di esponenzialmente peggiore rispetto al contenuto precedente.

In seconda istanza perché in Politica, a forza di volere ad ogni costo la cosa sbagliata (e sbagliata in maniera terminale, abominevole, aberrante) si finisce prima o poi per ottenerla. Salvo poi non accorgersi che il “voluto, fortissimamente voluto” di un tempo è oggi causa primaria di fenomeni devianti oltre misura di fronte ai quali tendiamo a mostrarci stupitamente offesi, spiritualmente feriti e, soprattutto, Dio maledica questa fottuta parola, “indignati”.

Come se una responsabilità diffusa e parcellizzata in riferimento a fenomeni sul genere “mafia capitale” non fosse, assertivamente od omissivamente, anche e soprattutto nostra. Di tutti noi o quasi (mia no, ovviamente: voi arrangiatevi).

Anticipo qui la sintesi finale e mi accingo quindi a sviluppare notevole sforzo maieutico auspicando così che voialtri, teste dure, capiate qualcosa.

Abbiamo preteso ad ogni costo la decapitazione del sistema partitico in Italia e l’abbiamo ottenuta, esultando come i Gipsy Kings dopo il contratto con Madonna; abbiamo preteso “pulizia” e, cazzo, l’abbiamo davvero ottenuta. Annientata completamente la funzione di filtro/cuscinetto del Partito vecchia maniera abbiamo creato un vuoto. Puntualmente riempito dai vari Buzzi, Carminati, Odevaine e compagnia o da loro consimili.

Come sempre accade quando ci si lega mani e piedi, adoranti e sbavanti, a quanti prospettano, fraudolentemente e pro culo proprio, la perfezione su questa Terra, siamo finiti in un mare di merda sconfinato.

Ce lo meritiamo. Punto.

Fertilizzati dalla retorica da puttana marcia su “corruzione”, “tangenti”, “maxitangenti”, Ferruzzi, Enimont, Cardini, Craxi, “valigette”, “fondi neri”, “Milano da bere”, Pillitteri, Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, “teste omega”, travagli quotidiani, santori settimanali, monetine lanciate all’Hotel Raphael e nodi scorsoi sbandierati in Parlamento, abbiamo davvero ottenuto un bel risultato: ovvero lasciare campo completamente libero a grassatori da strada, a “bravi” di manzoniana memoria, a “chuligani” beceri ma furbi, furbissimi ai quali nessuno più è stato in grado di opporre pur tenue resistenza.

Perché noi altri le cose o le facciamo bene o non le facciamo punto.

Quindi dopo aver smantellato dalle fondamenta l’unico sistema ha SEMPRE funzionato (con le fisiologiche eccezioni del caso: NOI non crediamo alla possibilità del mondo perfetto “qui e ora”), abbiamo pensato bene di ribilanciare l’assetto con l’iperplasia legislativa, con leggi, leggine, regolamenti e “codici etici”, con il commissariamento giudiziario delle istituzioni politiche, destinati ad appagare l’ego dei moralizzatori d’assalto.

“Ora si che tutto funziona”, si sarà detta la masnada di casi clinici, sessualmente disturbati, robespierriani fuori quota, fautori della laicità, imbonitori televisivi, nuovi sinedriti e vecchie baldracche malvissute alle quali il neomoralismo ha ricostruito un imene ideale e virtuale.

Un capolavoro, insomma.

Con la “moralità” imposta per legge abbiamo fatto largo alla peggior delinquenza che la penisola abbia mai subito dai tempi dei Lanzichenecchi.

Ma che c’entra il vecchio sistema partitico, chiederete voi amati due o tre lettori, teste di granito che non siete altro?

Semplice: al bel tempo che fu, in prima istanza, taluni soggetti nemmeno erano ammessi all’anticamera dell’usciere di terza classe aggiunto e supplente di un consigliere provinciale. Figuriamoci se potevano vantare amicizie parlamentari o ministeriali.

Non tanto e non solo per una questione di nebulosa “onestà”, ma per una questione di stile in primo luogo, e di autoconservazione in secondo luogo.

Al di là dei borborigmi sbavanti di qualche complottista “a la page”, esisteva un tempo una netta linea di cesura tra classe politica e “mondo di mezzo”, più correttamente “demimonde”. E la prima nemmeno considerava esercizio sensato il disprezzare il secondo: semplicemente neppure lo considerava. Reietti abbandonati al loro mondo di malaffare, stigmatizzati e odiati dal popolo, confinati nel loro “corral” di bestie men che umane, condannati ad una esistenza infame in perenne latitanza, spesso graziati da una pallottola targata Scelba (o chi per lui, Sant’Uomo e Galantuomo).

Oggi invece, almeno in parte significativa, questi reietti infami ce li ritroviamo ad amministrare punti chiave del parastato, benvoluti ed osannati dal popolino che, grazie a coloro, lavora o scuce qualche ghello all’odiato Stato, invitati a cene di gala, invitati a pontificare in TV sul “ruolo sociale delle cooperative” con lacrimoni di circostanza che un coccodrillo scapperebbe sconfitto a coda levata, corrivi a capiclan Rom dell’Anagnina (che, sarebbe il caso di dirlo una volta per tutte, sono ALTRA cosa rispetto ai Rumeni: con buona pace dei TG nazionali che li considerano razzialmente fungibili…), corrivi a ‘ndrangheta e criminalità organizzata internazionale: un pozzo nero del quale non si riesce ancora a sondare il fondo.

Ribadiamolo ancora qui, che non fa mai male: ogni vuoto creato in politica è destinato, SENZA eccezioni, ad essere riempito.

Il punto caldo è: come mai è stato riempito così male?

Scendiamo fenomenologicamente nel dettaglio.

Della decapitazione del sistema partitico abbiamo già accennato: ma cosa è successo dopo? Ovvero: come sono mutati, e in maniera palingenetica, i parametri di selezione della cosiddetta “classe dirigente”?

Ebbene, in peggio senza dubbio alcuno, sia per quanto riguarda gli “homines novi” di centro-destra che per quanto riguarda i conservatori paleolitici di sinistra.

Un tempo il Partito Politico svolgeva, tra le altre cose, un ruolo sociale mirabile e fondamentale per il progresso del paese. La ramificazione in sezioni sul territorio fu felicissima intuizione, indipendentemente dal colore d’appartenenza: la sezione era luogo di dibattito, di studio, di confronto e, soprattutto, di selezione primaria della classe dirigente (nulla a che vedere con le fallimentari “elezioni” veltroniane: pura fuffa bastante al più a mandare in solluchero qualche direttrice di quotidiano). Non solo: per loro stessa natura esercitavano una funzione di controllo autonomo che nessuna legge o leggina sarà mai in grado di battere per efficacia e severità. Se hai il culo chiacchierato, per dire, col cazzo che ti facciamo consigliere comunale. E in un contesto di fortissimo decentramento, era molto semplice sapere nel dettaglio chi avesse o meno il culo chiacchierato. Ed un Congresso Nazionale, specie per chi ci arrivava forte di 200.000 tessere, era sempre un’ordalia dalla quale era facilissimo uscire con le ossa rotte. La mera ipotesi di ingerenza da parte di pendagli da forca in una macchina così ben congegnata era semplicemente surreale: sarebbero stati presi a calci nel culo dai militanti stessi ben prima di arrivare a mendicare (e ottenere!) benefici cardinalizi da parte di un Consigliere Regionale, come invece oggi è accaduto.

Con il “new deal” post manipulite tutto questo cessa di esistere da un giorno all’altro. Fine. Keine. Kaput.

Ma, per una volta ed una sola voglio dirlo, poi mi sciacquerò la bocca col Listerine, la responsabilità specifica della magistratura al riguardo fu limitata.

Il peggio, e in buona fede, ne sono convinto, ce lo regalarono il post-partito di sinistra e il non-partito di centro-destra.

Liquidiamo in due parole il primo: persa la sua funzione storica nel 1989 e incapace di dare realmente corpo alla “svolta della Bolognina” se non sulla carta l’ex PCI resta una ed una sola cosa. Apparato. Apparato puro. Un apparato sconfinato. Il mantenimento del quale comporta in re ipsa il reperimento di risorse sempre maggiori e, di conseguenza, la necessità di scendere a compromessi certamente non criminali, ma comunque ambigui, luciferini, diafani e impensabili anche solo in epoca Berlinguer.

L’abolizione de facto delle Province nonché il ridimensionamento in negativo di consigli e giunte comunali e regionali ha inoltre diminuito notevolmente la possibilità di accasamento per le seconde, terze e quarte file. Le quali, è comprensibile, il loro “posticino al Sole” pur lo volevano e lo vogliono.

Forza Italia, d’altro canto, nasce fin da subito come il partito più centralista della storia repubblicana. Un non partito para-stalinista, se vogliamo.

Le “sezioni” formalmente esistono ancora, ma sono in realtà dei soviet per il bel mondo che conta. Ci ho militato e lavorato per 15 anni, quindi lo so.

Il Cavaliere non si pone allora né si porrà mai, per tutta la sua non breve vita politica, la questione della “selezione della classe dirigente”. Non gliene frega un cazzo di niente: basta LUI da solo o, al più, la “classe dirigente” ce l’ha già fresca, pronta e formata nelle fucine di Fininvest/Mediaset. Non vuole assolutamente ritrovarsi rompicoglioni che dibattono in sezione, propongono mozioni, interferiscano sulle scelte arcoriane, svolgano REALMENTE ruolo di coordinamento e promozione, facciano campagne di tesseramento (una nota a margine che rende l’idea più di tanti sproloqui: con un contributo tessera di 100.000 Euro si aveva diritto a TRE cene – trecenetre- con il Coordinatore Nazionale, ai tempi Sandro Bondi, e con 500.000 Euro di versamento ad UNA cena -unacena- ad Arcore con il Cavaliere in persona. Domanda: è forse un Partito questo? Rispondetevi da soli cercando di non scadere in una giustificatissima volgarità da caserma…), e, più in generale, svolgano quel ruolo FONDAMENTALE che i “rompicoglioni” di sezione hanno sempre svolto durante la Prima Repubblica: toccare il tempo alla dirigenza e fare da custode ai custodi.

Ma, accidenti, in mezzo a questo nulla incarnato, in mezzo a questo vuoto pneumatico, il problema delle candidature comunque si pone, perché le liste per elezioni comunali, provinciali, regionali, nazionali vanno in qualche modo riempite.

In qualche modo, appunto. Abolita pressoché in toto la consultazione “popolare” a mezzo sezione, con uno di quei lampi di genio a cui il monodinasta di Arcore ci ha abituato, ecco che arrivano…I CASTING!

Si, avete capito bene: i casting. Come se un futuro assessore al bilancio dovesse partecipare all’Isola dei Famosi o a Voice of Italy. L’inesistenza pressoché totale di forzisti barbuti, da sempre orpello facciale detestato a morte dal Cavaliere (e dalla generalità dei “parvenù” meneghini, se è per quello…), la dice lunga al riguardo.

Un non partito quindi ove unici criteri di selezione residuale per i candidati sono: 1) La simpatia personale del Cav, ottenuta a mezzo casting o meno; 2) Il lavorare per una delle aziende del Cav; 3) L’essere “raccomandati” da uno degli amici del Cav; 4) In ultimo, aver militato nel PSI/PRI/PLI: qualcuno che capisse qualcosa e gli sistemasse formalmente il non partito ci voleva. Pochi, in verità, questi ultimi: i meno peggio, comunque.

Un casino epocale che ha contribuito, per svista in buona fede ribadisco, ad aprire le stalle ad ogni bue.

Perché come ben potete capire alla fine questa massa di plurigraziati abituati a brainstorming, mission e “gestione delle risorse umane”, i voti sul territorio dovevano pur andarseli a prendere in qualche modo.

Come fare quando, pur abituati a far tremar maestranze inarcando un sopracciglio, nessuna esperienza si aveva di comizio, di confronto, di dialettica vera, di elementare retorica che non riguardasse il “marketing”?

Semplice: condizionati da una vita alla “obbligazione di risultato” e al compiacimento pedissequo dell’uomo cui dovevano tutto e per il quale il fallimento non è un’opzione hanno accettato di buon grado l’apporto di “collettori di voti” senz’altro non criminali o necessariamente collusi, ma con altrettanta certezza ambigui, come minimo, nello svolgimento del loro ruolo intermediario.

Caso emblematico, tra i tanti, quello riguardante un ex Consigliere Regionale di cui non ricordo il nome inquisito per voto di scambio: avrebbe negoziato 4000 voti con un noto capoclan calabrese. Senza in nulla volerlo assolvere o giustificare, ma dove altro avrebbe potuto prendere voti un quasi perfetto sconosciuto catapultato in campo senza particolari cerimonie e senza alcuna esperienza specifica?

Con questo, per carità, ben lungi dal voler sottendere che i due suddetti partiti abbiano dolosamente perseguito un progetto criminale o siano stati in una qualche misura conniventi con realtà ripugnanti, vessatorie, delinquenziali.

Hanno tuttavia involontariamente, certo, creato l’humus ideale perché un ben specifico tipo di “demimonde” si infiltrasse pressoché indisturbato in taluni centri nodali.

Senza dimenticare due ulteriori fattori umani: quello della smisurata avidità di certuni singoli, per i quali l’appartenenza politica non conta nulla se non come trampolino di lancio verso ghiotte cataste di denaro, e, su un piano più sottile, insinuante e criminalmente intelligente, il fatto che Buzzi&C. abbiano sfruttato come strumento per illeciti guadagni le cooperative sociali, ovvero un “regno” intoccabile per l’Italia buonista e rincoglionita, una specie di “sancta sanctorum” sul quale, per communis opinio eunuchorum, ogni ipotesi d’ombra o malversazione era offesa da lavare nel sangue.

In conclusione, questo è il paradosso di fronte al quale una volta di più ci troviamo: abbiamo accettato, quando non apertamente voluto, una massa di regole, regolette, “commissioni etiche” da fare impallidire il MINCULPOP, censure ed autocensure, abbiamo accettato in nome della “legalità” limitazioni mostruose alla nostra sfera soggettiva, tali da compromettere irreparabilmente il patto sociale (dall’anagrafe tributaria unificata all’Azathoth impazzito di Equitalia), abbiamo subordinato l’esercizio di voto alla “patente di legittimità politica” attribuita dalle redazioni “engagé” di grido per poi ritrovarci un Paese impestato di criminali di bassa lega come mai, mai e poi mai ve ne furono in un passato tutt’altro che lontano.

Siamo o non siamo coglioni terminali?

E ora, tutti in devoto pellegrinaggio ad Hammamet, teste di cazzo: a dire una volta di più “PERDONO! Non siamo stati degni di te…”.

 

Ad maiora